lunedì 19 dicembre 2016

Tempo di Mattarellum

In questi giorni, si riparla di Mattarellum, la legge elettorale uninominale maggioritaria al 75% e proporzionale al 25% in vigore dal 1993 al 2005, e utilizzata per l'elezione della Camera e del Senato in tre occasioni.

La legge elettorale scritta dall'attuale Presidente della Repubblica, anche nota come "l'ircocervo", è piuttosto complessa: infatti, si tratta in realtà di due leggi distinte, contraddistinte da una genesi molto particolare, su cui hanno avuto grande influenza la prima legge elettorale del Senato (in vigore fino al 1993) e il successivo referendum abrogativo del 1993.

Nei prossimi giorni, spiegheremo come funzionava il Mattarellum. Per farlo bene, però, non possiamo esimerci da una piccola parentesi storica: dovremo quindi partire dall'inizio, spiegando il funzionamento (invero piuttosto curioso) della prima legge elettorale del Senato.

La legge elettorale del Senato 1948-1993.

martedì 13 dicembre 2016

Il referendum sull'euro si può fare (sfortunatamente)

Anche se questo blog non è politicamente schierato, ciò non significa che non abbia chiari fondamenti ideologici: in particolare, riteniamo che la sola forma di democrazia compatibile con l'attuale contesto storico italiano sia quella maggioritaria e decidente.
Un elemento chiave della democrazia maggioritaria e decidente è che la forza politica che esca vincitrice dalle elezioni ha il diritto e il dovere di realizzare il proprio programma, in modo conforme al nostro ordinamento costituzionale, coerentemente con le regole che ci siamo dati, ma senza vedersi opporre lacci e lacciuoli.

Ciò vale per ogni obiettivo politico costituzionalmente legittimo: e io non dubito che l'uscita dell'Italia dalla moneta unica europea sia un obiettivo costituzionalmente legittimo. Il fatto che i costi di una tale decisione sarebbero quasi certamente tragici, non dice nulla sulla sua liceità. Il Movimento 5 Stelle ha nel proprio programma un referendum popolare sulla permanenza dell'Italia nell'euro: se, come io credo fortemente, uscire dall'euro per l'Italia sarebbe un vero disastro, il referendum sull'euro va contrastato con forza, ma nel merito, e non attaccandosi a lacci e lacciuoli.

Dopo l'intervista di Die Welt a Di Battista in cui l'esponente grillino ha ribadito l'intento di indire il suddetto referendum una volta vinte le elezioni, molti commentatori hanno liquidato la proposta con aria di sufficienza, ricorrendo al ben noto argomento secondo cui la nostra Costituzione esclude i referedum abrogativi delle leggi di ratifica dei trattati internazionali, e non prevede referendum consultivi o di indirizzo. Pertanto, prima di indire un tale referendum, bisognerebbe modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo: una riforma che, di per sé, dovrebbe essere approvata con referendum costituzionale, data l'implausibilità della maggioranza dei 2/3 in entrambe le camere.

Questo è ciò che dicono le opinioni raccolte dal sito Bufale un tanto al chilo, a cui aggiungiamo quella del costituzionalista Roberto Bin. Benché siano entrambe fonti delle quali ho la massima stima, nel leggerle ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte al cardinale Voiello, potente segretario di stato della Santa Sede, interpretato da Silvio Orlando nella fiction The Young Pope, i cui metodi da vecchio politicante si rivelano però del tutto inadeguati a ostacolare il determinato, giovane e dispotico papa Pio XIII interpretato da Jude Law.

Gli ostacoli pratici a un referendum sull'euro potrebbero forse scoraggiare forze politiche come la Lega o Fratelli d'Italia, antieuropee ma non insensibili ai riti politici italiani; ma il Movimento 5 Stelle, che non riconosce tali riti e che a differenza dei due partiti di destra citati non ha parentele fasciste o razziste da farsi perdonare (pur flirtando talvolta con fascisti e razzisti), sarebbe senz'altro maggiormente spregiudicato. Non ci vuole molta fantasia per capire che, se i grillini andranno al Governo, proporranno una legge costituzionale ben diversa da quella immaginata dai nostri commentatori.

Si tratterà di una legge costituzionale che conferirà al Governo il potere di autorizzare l'uscita dall'euro per decreto, in deroga a quanto previsto dalla Costituzione. Su questa materia circoscritta, il Governo potrebbe, per un periodo di tempo limitato, emanare decreti legislativi (eventualmente anche con forza di legge costituzionale) che realizzerebbero il ritiro dell'Italia dalle disposizioni del Trattato di Maastricht che hanno introdotto l'euro.

Dunque il referendum sull'euro di cui parla Di Battista non sarebbe altro che il referendum confermativo necessario per approvare una tale delega al Governo.

Sembra fantascienza? Forse, ma mi pare che non ci sia nulla, nella Costituzione, che impedisca un tale procedimento. Chi guida il governo ha in genere la maggioranza in entrambe le Camere, e quindi anche la possibilità di approvare testi di legge costituzionale da sottoporre direttamente al giudizio degli elettori. Al contrario, se lo scorso 4 dicembre fosse stata approvata la riforma Renzi-Boschi, la diversa composizione del Senato avrebbe reso questa strada non percorribile. Eppure, quella riforma è stata respinta perché secondo alcuni ci avrebbe esposti al rischio della deriva autoritaria. L'ironia della sorte.

mercoledì 7 dicembre 2016

Il tempo delle meline

Con la crisi di governo di oggi, si apre un nuovo capitolo della storia politica italiana; e quando dico "nuovo", intendo "vecchio": da oggi il partito di maggioranza relativa torna ad essere, come nella prima repubblica, soltanto primus inter pares, e il potere politico una torta di cui ognuno può tagliarsi una fetta.

Come ci ha insegnato il fumetto di Spiderman, potere e responsabilità vanno di pari passo: a partire da oggi, i grandi partiti dovranno condividere il potere con altri soggetti molto più di quanto non abbiano fatto negli ultimi 20 anni, e questo sarà per loro motivo di dispiacere; ma potranno consolarsi ampiamente condividendo con gli altri anche le responsabilità politiche (e una responsabilità condivisa, diffusa, è qualcosa di pericolosamente vicino all'irresponsabilità totale).

C'è una prima decisione da prendere subito: proseguire la legislatura, riprendendo la discussione sulle riforme che ormai dovrà ripartire dall'inizio; o ridare la parola agli elettori, votando subito dopo che la Consulta si sarà espressa sull'Italicum? Questa decisione, si dice nel Partito Democratico, ormai non spetta più al partito di maggioranza relativa, ma ai partiti rappresentati in Parlamento nel loro complesso. Una posizione che mette insieme diversi aspetti:
  1. Il Pd è uscito sconfitto dal referendum, ma ne ha capito benissimo il senso: gli italiani si sono opposti al governo di un solo partito. E allora, il prossimo governo dovrà essere espressione di una coalizione molto ampia.
  2. Le riforme istituzionali proposte dal Pd sono state respinte, quindi necessariamente non può più essere soltanto il Pd a farsi carico di questo tema.
  3. La necessità di dotarsi di nuove leggi elettorali, che il presidente Mattarella rappresenterà ai partiti nei prossimi giorni, si scontra con la dura realtà: i partiti che fanno governi per un mero "senso di responsabilità", nelle urne pagano poi un prezzo altissimo, come sappiamo dall'esperienza del governo Monti. Non ci si può aspettare che il Pd (oggettivamente la forza politica che più avrebbe da perdere da un governo di responsabilità nazionale) si suicidi una seconda volta.
  4. Richiedendo la partecipazione di tutti alla decisione, il Pd intende svelare le contraddizioni delle forze politiche che hanno sostenuto il No al referendum costituzionale, e l'impossibilità di raggiungere un consenso su un'altra soluzione.
Quest'ultimo punto, evidentemente, è il tentativo di consumare una piccola vendetta. Soltanto un tentativo, però, dal momento che la necessità spesso apre a scenari imprevedibili, e non è da escludersi che il Parlamento possa trovare un qualche accordo.

Al momento, però, con il M5S ormai sostenitore dell'Italicum e del voto in tempi brevi, Forza Italia e partiti minori per il proporzionale, la Lega che chiede il voto immediato, e il Pd battuto che non ha né la forza né la voglia di esprimersi (anche data la cospicua presenza di dissidenti) e rimane a guardare alla finestra, non si vede come possa formarsi un governo di ampia condivisione. Ci aspetta un lungo periodo di melina, che durerà fino alla sentenza sull'Italicum.

E poi? Se la Corte Costituzionale dovesse abrogare il premio di maggioranza dell'Italicum, le ragioni per un proseguimento della legislatura rimarrebbero obiettivamente poche e lo stesso Mattarella non potrebbe non tener conto dell'abulia del Parlamento e del risultato del referendum, e dovrebbe quindi acconciarsi a sciogliere le camere. In caso di conferma dell'Italicum, invece, ci troveremmo di fronte a una situazione clamorosa: la richiesta del M5S di estendere il meccanismo del premio e del ballottaggio anche al Senato, una volta ottenuto il bollino di legittimità dai giudici costituzionali, acquisterebbe maggior forza, e chiunque volesse opporsi verrebbe facilmente accusato (con qualche ragione) di voler impedire una vittoria grillina. Anche se l'applicazione del meccanismo dell'Italicum al Senato è oggettivamente difficile (come abbiamo raccontato lunedì scorso) appellarsi a questo tecnicismo per escludere un'estensione dell'Italicum alla camera alta potrebbe rivelarsi un terribile autogol.

lunedì 5 dicembre 2016

Un Italicum su base regionale?

Nel commento al risultato del referendum, ho evidenziato che, per forza di cose, le riforme istituzionali rimangono d'attualità, essendo il sistema elettorale attualmente in vigore insoddisfacente, in special modo per quanto riguarda le profonde differenze tra la legge che regola l'elezione della Camera e quella che regola l'elezione del Senato.

Il Movimento 5 Stelle ha fatto sapere di essere favorevole a uniformare il sistema introducendo, al Senato, un Italicum su base regionale. Pare di capire che i grillini vogliano tornare ai premi di maggioranza regionali già sperimentati, con risultati disastrosi, al tempo del Porcellum. L'attribuzione di premi regionali servirebbe a conformarsi al testo costituzionale, che richiede per il Senato un'elezione su base regionale (la stessa motivazione addotta per il Porcellum nel 2005).

Ma oggi non siamo più nel 2005, e il meccanismo dei premi regionali è stato smontato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 che ha stabilito l'incostituzionalità del Porcellum: sentenza da molti citata, ma evidentemente letta da pochissimi. La Corte Costituzionale ravvisa nei premi regionali ben due vizi di costituzionalità; leggiamo infatti nel punto 4 del considerato in diritto:
queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. 

La violazione del principio di eguaglianza del voto a cui la sentenza fa riferimento riguarda il fatto che i cittadini lombardi, decidendo su un premio di maggioranza pari a 49 seggi, avevano un potere enormemente più grande dei cittadini abruzzesi, il cui voto determinava l'attribuzione di un premio pari a 4 seggi soltanto.

La sentenza continua:
Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993. 

In aggiunta alla violazione dell'uguaglianza del voto, vi è inoltre la violazione del principio di ragionevolezza, dal momento che i premi di maggioranza regionali, tendendo ad elidersi gli uni con gli altri, finiscono spesso col produrre un risultato sostanzialmente casuale ed inidoneo a favorire la governabilità. Per cui non soltanto una tale disciplina deforma la proporzionalità nell'attribuzione dei seggi, ma lo fa senza alcun valido motivo.

Per queste ragioni, la proposta del Movimento 5 Stelle è inapprovabile. Uscire dal pantano in cui ci siamo cacciati non sarà facile.

Le riforme senza bussola

Oggi mi corre l’obbligo di scrivere qualcosa sul risultato inappellabile del referendum – un 60 a 40 per il No, che significa una sconfitta su tutta la linea per noi che avevamo creduto nella riforma fin dall’inizio – ed è un compito difficile. Nel mio blog, per regola, non si è mai parlato di Renzi (l’unica menzione del nome del Presidente del Consiglio uscente è stata nella locuzione “riforma Renzi-Boschi”), e non ho ragione per tradire questa regola.

Di che altro parlare, dunque? La domanda più importante a cui rispondere è, senza dubbio, dove ci troviamo dopo il referendum. Ancora una volta, al punto di partenza: quello del 2011, quello del 2005, quello del 1997, del 1992 e del 1983. Passano i decenni, ma ogni tentativo di riforma ci riconduce inevitabilmente all’origine. Con ogni fallimento, però, perdiamo qualcosa: la bussola che ci aveva guidato in questi ultimi 5 anni è rotta e non potremo seguirla ancora, perché gli italiani hanno detto No al principio del Senato delle autonomie; hanno detto di no alla correzione dei poteri delle regioni; hanno rifiutato la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del CNEL e delle province, e la trasformazione del bicameralismo paritario in bicameralismo asimmetrico.

E tuttavia, con buona pace di quei cittadini che hanno votato No ritenendo che le riforme istituzionali siano secondarie o inutili, e che i problemi veri sono altri, di istituzioni parleremo ancora per molti mesi, e quasi sicuramente per anni, proprio perché questo tentativo (come quelli precedenti) non ha avuto successo. A cominciare dalla legge elettorale, dato che l’Italicum regola soltanto la Camera dei Deputati, e per il Senato rimane in vigore una legge del tutto diversa: è necessario cambiare, quindi, ma non disponiamo che di strumenti incerti e inadeguati per farlo.

Infatti il risultato del referendum non ci dà alcun indizio relativamente alla direzione in cui dovremmo modificare la legge elettorale. Ci suggerisce, invece, che questa legislatura già delegittimata sul piano della credibilità della propria elezione in seguito alla sentenza Porcellum, oggi è delegittimata anche politicamente, visto come è stata ricevuta dai cittadini la riforma costituzionale, che era il suo più importante conseguimento.

Come potrà allora il nostro Parlamento produrre una nuova legge elettorale, se mancano sia un’idea condivisa degli obiettivi che una tale legge dovrebbe porsi, sia l’investitura necessaria a condurre in porto la riforma? Chiunque riceva l’incarico di guidare il prosieguo della legislatura, non potrà certo intestarsi il consenso di una parte cospicua degli italiani, che del resto sono stati chiarissimi nel dire cosa non vogliono, ma oscuri nello spiegare cosa vogliono.

Forse una pezza ce la metterà la Corte Costituzionale, che potrebbe abolire il premio di maggioranza dell’Italicum con una motivazione cerchiobottista: il premio di maggioranza è ragionevole in un sistema monocamerale o bicamerale asimmetrico, ma in presenza di un Senato paritario c’è il rischio che renda il paese meno governabile, e quindi non può essere accettato.

Il problema di questa "soluzione" è che non solo sarebbe la seconda sentenza di incostituzionalità su una legge elettorale in questa legislatura, ma stavolta non ci sarebbero né il tempo né le condizioni per addomesticarla: dovremmo per forza tornare a votare con un sistema che non è mai stato approvato da un organo provvisto della minima legittimità politica. Il principio maggioritario sancito dagli elettori con il referendum del 1993 verrebbe così divelto da un mix di accidenti storici (primo fra tutti la sostituzione del Mattarellum con un Porcellum sì incostituzionale, ma che comunque preservava il principio maggioritario) e di sentenze basate su ragioni formalmente tecnico-giuridiche, ma in pratica politicissime. A questo si aggiunga il fatto che oggi ben 9 giudici costituzionali in carica su 14 derivano, in qualche maniera, la propria carica proprio dalla legge elettorale Porcellum già giudicata incostituzionale.

Parafrasando con triste ironia il titolo del libro del prof. Stefano Ceccanti, la transizione continua e ci siamo dentro fino al collo. Fino a quando non finirà, continueremo a dire SìRiforma!

venerdì 2 dicembre 2016

Dopo il referendum

Ci siamo: finalmente domenica si vota. Per un ricercatore in informatica come me, senza ambizioni politiche, ma ansioso di rendere Italia un paese più dinamico, dotato di governi stabili, ma responsabili di fronte ai cittadini, con autonomie locali rilevanti ma non anarchiche – in poche parole, un paese più europeo – questa campagna referendaria è stata avvincente e stimolante, ma anche dura e stancante.

Giunto a questo punto, dopo tanti commenti, tante discussioni, un confronto pubblico, un aperitivo per il Sì, preparati a tempo perso tra qualche difficoltà, avrei tante cose ancora da dire: ad esempio, commentare per voi ciascuno degli articoli della riforma costituzionale. Non c’è più abbastanza tempo per un lavoro del genere, ma il Comitato Basta un Sì ha già fatto un magnifico lavoro; ai più curiosi consiglio di leggere anche il dossier della Camera dei Deputati che sintetizza il contenuto della riforma.

Oggi non è più il momento di discutere della riforma costituzionale: oggi dobbiamo pensare a cosa ci aspetta lunedì prossimo, dopo il referendum. Se questa campagna referendaria ha avuto un limite, è stato quello di presentare il voto come un punto di arrivo: la vittoria del Sì come palingenesi della politica italiana; la vittoria del No come sconfitta definitiva del nuovismo.

Non è così. Lunedì 5 dicembre sarà molto simile a sabato 3; certo, ci sarà qualcuno che riderà e qualcuno che piangerà: i primi berranno per festeggiare, i secondi per dimenticare; la differenza, però, finirà lì. L’Italia sarà ancora in viaggio, in un momento difficile della propria storia (seppur con qualche segnale incoraggiante).

Saremo ancora in viaggio: con quale destinazione, con quali progetti, con quali speranze? Il più grande rischio del No è quello di scoprire che tutti i nostri sforzi per muoverci ci hanno riportati al punto di partenza; e allora a che serve tanta fatica? Smettiamo di sprecare benzina, spegniamo il motore e rimaniamo dove siamo.

C’è un analogo rischio per il Sì: quello di credere di essere arrivati a destinazione. Non perdiamo la testa: quella costituzionale è la riforma che consente di fare le riforme. Un’automobile nuova, più moderna ed efficiente, non serve a niente se la teniamo in garage: dovremo cominciare a usarla subito senza timore, anche perché – non nascondiamocelo – avremo bisogno di tempo e di pratica per imparare a sfruttare le sue potenzialità, le sue nuove funzioni. Penso soprattutto alle funzioni non legislative del nuovo Senato: la valutazione delle politiche pubbliche, dell’attività delle pubbliche amministrazioni, e dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea; i pareri sulle nomine di competenza del Governo; la verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato.

Non sarà semplice dare sostanza a questi poteri, ma il loro impatto sull’efficienza della macchina dello Stato e degli enti locali potrebbe essere notevolissimo, se non ci adageremo sugli allori. Perché il riformismo è questo: sapere che il viaggio della politica non ci porta mai a una destinazione, ma sempre a un nuovo inizio e a un nuovo viaggio, da affrontare senza paura e con la stessa determinazione di quello precedente.

Domenica, finalmente, si vota Sì. Lunedì, comincia un nuovo viaggio, una nuova sfida per gli italiani che hanno il coraggio e la speranza di affrontare il futuro. E io non vedo l’ora di affrontarla insieme a tutti gli altri italiani che hanno lo stesso coraggio e la stessa speranza. Basta un Sì!

lunedì 7 novembre 2016

Collegi uninominali proporzionali

Ho ripubblicato un mio vecchio articolo sui collegi uninominali proporzionali, che spiega il funzionamento di una formula elettorale poco nota che potrebbe entrare nelle modifiche all'Italicum di cui si parla in questi giorni.

Una terza via tra liste bloccate e preferenze

domenica 6 novembre 2016

Il trattato di pace: cosa ha ottenuto Cuperlo

Mentre ieri partecipavo alla Leopolda, è giunta la notizia che Gianni Cuperlo, l'esponente della minoranza critica del Pd incaricato di trovare una mediazione con il partito, in modo da arrivare a un voto favorevole al referendum del 4 dicembre, aveva dato il suo ok.

Con la sua firma al documento della commissione a cui hanno partecipato anche Guerini, Orfini, Zanda e Rosato, Cuperlo ricompone la frattura nel Partito Democratico. Per i temi trattati e anche per gli equilibri politici che muove, la decisione di Cuperlo è destinata a incidere profondamente sul futuro delle istituzioni italiane se la riforma costituzionale entrerà in vigore.

Nell'accordo, visto con favore anche dalle altre forze politiche che hanno approvato la riforma costituzionale, viene affrontato il tema dell'effetto aggregato di norme costituzionali e norme elettorali. Anzi, voglio essere brutale: il documento mette fine a quella cosa nota, per antonomasia, come combinato disposto.

I temi trattati sono i seguenti:

Collegi

Viene espressa una per il sistema per la selezione degli eletti con il metodo dei collegi uninominali: il Pd intende dunque eliminare i capilista bloccati.

Turno unico

C'è l'impegno a eliminare il ballottaggio dalla legge elettorale per la Camera dei Deputati.

Premio di maggioranza

Viene confermato il premio di maggioranza, in quanto unico meccanismo, in un sistema politico multipolare come quello italiano, in grado di promuovere la governabilità e insieme conferire ai cittadini la facoltà di indicare chiaramente quale forza politica avrà la responsabilità di garantire il governo del paese.

Coalizioni?

Il documento dice che il premio di governabilità dovrà essere "di lista o di coalizione". Il che, naturalmente, equivale a non dire nulla, se non che l'ipotesi del ritorno alle coalizioni elettorali è sul tavolo.

Elezione dei senatori.

C'è l'impegno ad approvare una legge elettorale che dia ai cittadini la facoltà di indicare i senatori al momento delle elezioni regionali. I consiglieri regionali, che eleggeranno i senatori, saranno vincolati a ratificare l'indicazione dei cittadini: un vincolo che si fonda sull'art. 57 comma 5 della Costituzione riformata.

Commento

Molto positiva la proposta dei collegi uninominali, che fa fuori in un sol colpo capilista bloccati (percepiti come "nominati") e preferenze (collegate a fenomeni di clientelismo e corruzione). Il documento non precisa se si tratti di collegi maggioritari (come in Inghilterra) o di collegi proporzionali (come alle vecchie elezioni provinciali, o alle elezioni del Senato fino al 1992): sono entrambe ottime scelte, ma soltanto la seconda si combina bene con il meccanismo del premio; è inoltre improbabile che il maggioritario piaccia ai piccoli partiti (il cui voto favorevole è indispensabile).

Il ballottaggio è il cuore dell'Italicum e il suo stralcio è una concessione enorme a Cuperlo, con tante implicazioni. Una scelta non priva di ragioni, ma che consideriamo negativa. Esiste un modo per far funzionare il turno unico in modo accettabile? Ne discuteremo in un altro articolo.

Bene la conferma del premio di maggioranza. Il turno unico, però, si porta come conseguenza l'impossibilità di assegnare il premio in formato jackpot (dando a chi vince 340 seggi, indipendentemente dalla percentuale di voti ricevuti), come stabilito dalla sentenza 1/2014 della Corte Costituzionale. Bisognerà dunque utilizzare il meccanismo del premio alla greca (un pacchetto di seggi fisso, che si aggiunge a quelli ottenuti con la ripartizione proporzionale).

Sulle coalizioni si è fatta soltanto un'ipotesi, e non è difficile comprenderne la ragione. Con il meccanismo del premio fisso alla greca, non c'è garanzia che il vincitore delle elezioni abbia una maggioranza. Cosa succederà se una coalizione vincerà le elezioni senza arrivare a 316 seggi? Bisognerà trovare ulteriori alleati in Parlamento: ma i nuovi alleati potrebbero opporre un veto a quelli vecchi, con il risultato di rompere una coalizione validata dal voto dei cittadini per sostituirla con una che i cittadini non hanno approvato.
La logica dice dunque che si può avere o il premio di coalizione in formato jackpot, o il premio di lista alla greca, ma non il premio di coalizione alla greca.

La proposta di legge elettorale del Senato implementa un'elezione semi-diretta e viene incontro alla richiesta che i senatori non siano dei nominati. Io non credo che l'elezione semi-diretta sia un miglioramento, e non avrei definito "nominati" dei senatori eletti dal consiglio regionale, così come non definisco "nominato" il Presidente della Repubblica. Però è importante e giusto che si tenga conto dell'opinione pubblica, che vuole mantenere un controllo sulla composizione del Senato.

venerdì 28 ottobre 2016

Legittimazione

Oggi vi scrivo un post breve sulla legittimazione del Parlamento italiano: una legittimazione scassata dalla legge elettorale Calderoli, il porcellum.

Avere approvato una legge incostituzionale come il porcellum non è un male astratto. Il porcellum ha fatto delle vittime: i cittadini italiani che hanno perso il diritto di essere arbitri della politica, e di essere rappresentati da soggetti pienamente legittimati dal voto.

La rottura della catena della legittimazione popolare investe tutti: parlamentari eletti con una legge incostituzionale; presidenti della repubblica eletti da quei parlamentari; giudici costituzionali eletti o nominati da quei parlamentari e quei presidenti della repubblica.

Già, perché nella composizione della Corte Costituzionale che ammazzò il porcellum c'erano giudici che derivavano la propria nomina, in ultima analisi, proprio dal porcellum: per l'esattezza, 6 su 15.

La nuova normativa elettorale che ha sostituito il porcellum (nota come consultellum) è stata dunque stabilita da un organo che non soltanto, in teoria, non avrebbe il compito di scrivere leggi, ma i cui membri erano in gran parte frutto proprio della legge che si accingevano a dichiarare incostituzionale.

Ma allora il consultellum, pur essendo conforme alla Costituzione, non è una libera scelta democratica, ma una normativa accidentale pur sempre derivata da quel porcellum incostituzionale, che continua a ledere i diritti dei cittadini.

Chi sostiene che l'attuale Parlamento non è pienamente legittimato non ha tutti i torti; ma questo Parlamento imperfetto ha fatto l'unica cosa che può restituire alle istituzioni piena legittimazione: chiedere a noi cittadini italiani di decidere che tipo di democrazia vogliamo.

Il 4 dicembre possiamo scegliere tra una democrazia mediata dai partiti, e una democrazia dei cittadini arbitri. E' il più grande potere che ci sia stato dato da tanti anni: cerchiamo quindi di usarlo bene.

sabato 13 agosto 2016

I contenuti della riforma costituzionale del 2016

Abbiamo pubblicato un'analisi dei contenuti della riforma costituzionale. L'articolo elenca le innovazioni della riforma limitando le valutazioni di merito e la descrizione dei benefici, che pubblicheremo in ulteriori approfondimenti dedicati alle modifiche più importanti.

sabato 7 maggio 2016

Procedimenti legislativi

Discutendo dei procedimenti legislativi introdotti dalla riforma costituzionale, molti commentatori,
anche molti costituzionalisti, hanno letteralmente dato i numeri. Tre, nove, una quarantina: chi ha ragione?

In realtà, dopo la riforma esisteranno soltanto due procedimenti: il procedimento ordinario (in cui prevale la volontà della Camera dei Deputati, al massimo in seconda lettura) e il procedimento bicamerale paritario (proprio di una minoranza ben delimitata di leggi). Come già oggi, talvolta si applicano regole speciali, ma in soldoni la decisione finale spetta quasi sempre alla Camera.

Per i più curiosi, abbiamo pubblicato tutti i dettagli in questa pagina.

mercoledì 4 maggio 2016

I polli di De Siervo

Un breve post per commentare le parole di De Siervo in un'intervista pubblicata ieri sera dal Corriere della Sera.

Nell'intervista, l'ex presidente della Corte Costituzionale esprime molti punti di vista degni di rispetto: opinioni che noi non condividiamo, ma che rispettiamo e ci auguriamo permettano di approfondire il dibattito. Poi, però, cade nel solito vizio di esagerare, di enfatizzare, anche a costo di manipolare la realtà, arrivando persino -- spiace dirlo -- a inventarsi alcune cose di sana pianta.

Dice De Siervo che con la riforma costituzionale

si riporta indietro, a prima degli anni 70, il livello di potestà legislativa delle Regioni

Rimango basito: ogni persona mediamente informata sa che in Italia, prima del 1970, le Regioni neanche esistevano (con l'eccezione di quelle a statuto speciale) e che non avevano competenze legislative se non quando venivano loro benevolmente affidate dallo Stato centrale mediante le cosiddette leggi quadro. Seppur correggendo alcune abnormità approvate nel 2001, la riforma costituzionale conferma l'esistenza di competenze specifiche delle Regioni, arrivando anche ad elencare, direttamente nella Costituzione, l'insieme delle materie a vocazione regionale.

Non basta. Aggiunge De Siervo:

Mentre dobbiamo ancora chiarire bene a cosa servirà il nuovo Senato, la riforma prevede che la Camera si occupi di tutto tranne di quello che non è “espressamente” attribuito alla competenza dello Stato. Bene, tra le materie non disciplinate ci sono l’industria, l’agricoltura, l’artigianato, le miniere, la pesca. Cosa succederà se una Regione interverrà? Finirà che la Corte dovrà continuare a fare il vigile urbano.

Anche qui ci troviamo, purtroppo, di fronte al ribaltamento della realtà. All'art. 117 della Costituzione riformata, si legge:

Spetta alle Regioni la potestà legislativa [...] in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato.

Chiaro? "Spetta alle Regioni", non alla Camera. Se dunque una Regione dovesse decidere di occuparsi di una materia priva di riserva statale, non succederà proprio nulla. Potrebbe invece essere lo Stato a decidere di invadere la sfera legislativa delle Regioni; ma anche qui, non c'è spazio per contenziosi: se lo Stato interverrà, dovrà farlo mediante la cosiddetta clausola di supremazia, definita sempre nell'art. 117:

Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.

Le leggi approvate secondo la clausola di supremazia prevedono un maggior coinvolgimento del Senato delle Regioni e un quorum rinforzato nel caso in cui la Camera decidesse di non conformarsi al parere del Senato. Proprio grazie alla clausola di supremazia non sarà più possibile il contenzioso Stato-Regioni che ci affligge dal 2001! E questo spiega anche a che cosa serva la camera alta.

Naturalmente De Siervo sa perfettamente di aver diffuso, con la sua intervista, vere e proprie menzogne. Ciò che non capiamo è come possa essere disposto a macchiare la sua autorevolezza spargendo becchime per polli, falsità a cui soltanto un totale sprovveduto può credere.

In ogni caso, tristezza, molta tristezza.

giovedì 28 aprile 2016

Riforme à la carte?

Alcune forze politiche sostengono che la riforma costituzionale sia eterogenea e che per questa ragione un voto in blocco al referendum di ottobre potrebbe soltanto essere un plebiscito sul premier. Secondo loro, al referendum ciascun cittadino dovrebbe ricevere un menu à la carte e scegliere soltanto quelle parti di riforma che sono di suo gradimento. Sembra una proposta eccezionalmente democratica: ma non è tutto oro quello che luccica...

Nel 2316 il Parlamento approvò una riforma costituzionale che rafforzava i poteri del capo del governo, e insieme anche i poteri di controllo delle Camere. Qualcuno (non la maggioranza parlamentare che l'aveva approvata) sostenne che si trattava di due riforme diverse. In seguito a una decisione di 300 anni prima, bastò questa opinione a provocare l'indizione di due referendum separati: si era giunti alla conclusione che un referendum unico su due materie distinte avrebbe coartato la volontà degli elettori, inducendoli a votare non sull'oggetto della riforma, ma sull'adesione plebiscitaria alla forza politica che l'aveva scritta.

Si votò dunque su due quesiti:
A) Volete rafforzare i poteri del Presidente del Consiglio?
B) Volete rafforzare i poteri del Parlamento?

Un'efficace campagna di stampa convinse alcuni cittadini che il rafforzamento del Parlamento avrebbe accresciuto inutilmente i costi di un inefficiente organo collegiale. I risultati dei referendum furono dunque i seguenti.

A) 55% SI' -- 45% NO
B) 45% SI' -- 55% NO

Per questa ragione, entrò in vigore il rafforzamento dei poteri dell'esecutivo, non bilanciato da nuovi poteri di controllo per il Parlamento.

E questo risultato fu paradossale perché, se si fosse saputo in anticipo che i poteri del Parlamento non sarebbero stati rafforzati, soltanto il 30% dei cittadini sarebbe stato favorevole al referendum A, mentre il 70% avrebbe votato contro. In altre parole, dopo due referendum, entrò in vigore una riforma osteggiata dalla stragrande maggioranza dei cittadini!

Allora tutti si resero conto di quanto fosse folle l'idea delle riforme à la carte: ma ormai, la frittata era fatta.

Conclusione: non sempre votare due volte è più democratico di votare una volta sola, e sicuramente non lo è nel caso di un referendum costituzionale. È possibile che alcuni costituzionalisti non siano a conoscenza di questa evidenza? O in realtà il loro obiettivo è proprio quello di impedire che gli elettori possano esprimere la propria volontà, frazionandola in modo da perdere di vista il quadro generale? Giudicate voi.

lunedì 21 marzo 2016

Le ragioni del Sì/2

Oggi, in una discussione virtuale sulle riforme istituzionali, mentre elogiavo la stabilità di governo come bene di rilevanza costituzionale (come riconosciuto dalla Consulta) mi è stata posta una questione che giudico sorprendente:
non capisco perche' per te una crisi di governo sia un evento drammatico
Senz'altro "drammatico" è una parola molto carica, che va usata con giudizio per indicare avvenimenti che hanno un impatto devastante sulla vita delle persone, come perdere il lavoro, o dover chiudere un'impresa. Se poi guardiamo fuori dall'Italia, in Medio Oriente, o in Libia, vediamo ogni giorno drammi che riducono le nostre difficoltà domestiche a piccolezze senza importanza.

Detto questo, ho diverse ragioni per sostenere che crisi di governo troppo frequenti siano una patologia del nostro sistema istituzionale.

  1. Per prendere decisioni lungimiranti, i governi hanno bisogno di un respiro più lungo. Un governo dall'equilibrio precario non può avere la forza di prendere decisioni coraggiose: dobbiamo entrare nell'ordine di idee che le crisi di governo a metà legislatura dovrebbero essere un evento del tutto eccezionale, come in Regno Unito, in Germania o in Spagna.
  2. Le crisi di governo impediscono la trasmissione della volontà popolare dal voto al programma di governo. I cittadini italiani vogliono che il loro voto sia determinante nella formazione del governo e nello stabilire quale saranno le sue priorità e il suo programma: se il governo cade ogni due per tre e viene ricomposto in Parlamento mediante alleanze mutevoli, i cittadini non hanno modo di esprimere il loro punto di vista. 
  3. La terza ragione riguarda la rendicontabilità o accountability: in una democrazia consociativa, consensuale, in cui tutti partecipano alla spartizione del potere, è difficile stabilire a chi va attribuita la responsabilità politica, sia per quanto riguarda i successi, sia per quanto riguarda gli insuccessi. In Italia questo si è tradotto in un'arte dello scaricabarile che ha francamente stancato. 
  4. Molti nelle crisi di governo vedono soltanto la sconfitta di un capo politico (sconfitta mai definitiva, in ogni caso, dato che proprio la frequenza delle crisi di governo fornisce molte occasioni di tornare al potere), ma questo non è l'unico aspetto, e certamente non è l'aspetto più importante. Una crisi di governo è soprattutto il fallimento, traumatico, di un programma politico. Pensate a quante buone intenzioni, approvate dagli elettori, sono state vanificate dalla troppa facilità con cui è possibile far traballare un governo. E così, i governi pensano come prima cosa a tirare a campare e il patto tra elettori ed eletti perde ogni valore.
Oggi siamo assuefatti alle crisi di governo: ne abbiamo viste così tante alcuni ritengono che un governo troppo stabile sia poco democratico. Noi la vediamo diversamente: i governi dovranno cambiare meno spesso che in passato, ma quando si verifica un cambio di maggioranza, voluto dagli elettori, deve corrispondere un percepibile cambio nell'indirizzo politico.

Le ragioni del Sì/1

Sul sito Terni in Rete trovate una videointervista al costituzionalista Stefano Ceccanti sulle ragioni per votare Sì al referendum costituzionale. Secondo Ceccanti, votando Sì sarà finalmente possibile decidere di attribuire a una sola camera il potere di dare e togliere la fiducia al Governo. Qualora approvata, la riforma consentirà inoltre di superare il conflitto Stato-Regioni (che da anni affligge la Corte Costituzionale) responsabilizzando le autonomie a livello nazionale mediante la partecipazione alla seconda camera parlamentare.

Anche se "non c'è mai una bacchetta magica che risolve tutti i problemi", la riforma rappresenta un "un passo avanti decisivo" in quanto viene meno il rischio di un Parlamento che non riesca a dare vita a un governo, come capitato tre anni fa.

Dopo il referendum, alcune parti della riforma entreranno immediatamente in vigore (come la chiusura dell'inutile CNEL); le parti restanti entreranno in vigore nel 2018, dopo alcuni adempimenti necessari quali l'aggiornarmento dei regolamenti parlamentari e l'approvazione della legge elettorale per il nuovo Senato.


martedì 16 febbraio 2016

Parole attuali su un'Italia inattuale

Il prof. Guido Melis ha pubblicato su Facebook un articolo del quotidiano la Repubblica sulla riforma del Senato. Vi chiederete che cosa ci sia di tanto speciale in questo articolo: non tanto i contenuti, su cui concordiamo integralmente, ma la data di pubblicazione: infatti, è stato scritto quasi 40 anni fa.
Come si può scrivere un articolo tanto attuale con quarant'anni di anticipo? Da un lato, merito del giornalista; dall'altro, demerito di un'Italia che in tutto questo tempo non ha saputo cambiare mentre il mondo cambiava attorno a lei. In questo ravvisiamo anche la responsabilità di alcuni quotidiani, come appunto la Repubblica, che nel 1979 doveva essere più moderna di quanto non sia oggi.

A che serve il Senato?
di Antonio Gambino (la Repubblica, 26 agosto 1979)

Nei mesi scorsi si è parlato più volte della possibilità, e persino della necessità, di una riforma costituzionale. Al centro di questi discorsi vi era l’esigenza di rendere più rapido ed efficace il sistema decisionale, attraverso un rafforzamento dell’esecutivo. Ci si può chiedere se lo stesso obiettivo non possa essere raggiunto attraverso una radicale modifica dell’attuale sistema bicamerale.

Vale innanzitutto la pena di ricordare che l’assetto oggi esistente è stato il frutto di un processo tortuoso e faticoso. Presa una decisione di massima favorevole al bicameralismo, i “costituenti” si scontrarono a lungo, nel 1946-’47, sul carattere specifico da dare ai due organismi, in primo luogo perché la Dc era favorevole a un Senato che fosse, in qualche modo, un’assemblea delle professioni e dei mestieri. Le sinistre si batterono contro questa impostazione, non solo perché essa ricordava troppo da vicino le formule corporative fasciste, ma perché il metodo di elezione rischiava di dar vita ad un organismo di dubbio carattere democratico.

Il risultato fu un compromesso, in base al quale Camera e Senato venivano a distinguersi unicamente per l’età degli elettori (21, ed oggi 18 per la prima, e 25 per il secondo); per il funzionamento della legge elettorale (il Senato ha circoscrizioni più ristrette che favoriscono, ancora di più di quanto non avvenga per la Camera, i partiti maggiori); per il numero dei membri (attualmente 630 per la Camera e 315 per il Senato); infine per la diversa durata. Quest’ultimo punto, tuttavia, fu corretto già alla fine della prima legislatura repubblicana. Il risultato fu di due assemblee che - come oltre trent’anni di esperienza hanno ampiamente dimostrato - erano sostanzialmente un doppione. Questa situazione è del tutto originale. Nessuno degli Stati del mondo a regime democratico-liberale ha infatti un assetto costituzionale simile al nostro.

Da un lato, infatti, vi sono paesi come l’Inghilterra, in cui la Camera Alta ha peduto da tempo ogni potere effettivo. Dall’altro vi è il modello della Repubblica Federale Tedesca. dove il Senato (il Bundesrat) non solo è un corpo estremamente ristretto, ma ha funzioni limitate a talune materie costituzionali, e all’approvazione dei trattati internazionali. Inoltre i suoi rappresentanti non vengono eletti dal popolo ma sono scelti dai governi dei vari Laender.

Ad un concetto del tutto differente si ispira la Costituzione degli Stati Uniti, dove il vero potere risiede nel Senato, la cui particolarità è di non essere eletto secondo un criterio proporzionale (come la Camera dei rappresentanti) ma di avere due membri per ciascuno dei 50 Stati, senza differenza tra quelli che hanno poche centinaia di migliaia di abitanti e quelli che ne hanno invece decine di milioni. La Costituzione americana, infatti, parte dal principio che tutte le decisioni che riguardano il destino del Paese devono avere l’appoggio della maggioranza non solo dei cittadini ma degli Stati che partecipano alla federazione.

Ognuno di questi tre sistemi ha indubbiamente una sua logica interna, che non si riscontra invece nell’ordinamento italiano. Posto che a vigilare sulla legittimità delle leggi provvede la Corte costituzionale, non si vede quale “principio di ragion sufficiente” giustifichi l’esistenza di due assemblee legislative, sostanzialmente identiche.

Questa duplicazione è, non solo inutile, ma nociva. Basti pensare all’assurda procedura delle dichiarazioni che ogni nuovo presidente del Consiglio deve fare, in rapida successione, in entrambi i rami del Parlamento e al doppio dibattito sulla fiducia; oppure ai lunghi patteggiamenti necessari per bilanciare, nei vari governi, il numero dei senatori e dei deputati; o infine al rimbalzare , tra Montecitorio e Palazzo Madama, delle leggi che, già approvate in una sede, vengono nell’altra modificate, spesso solo ubbidendo solo a esigenze clientelari, e talvolta in base a veri e propri colpi di mano. Tutti inconvenienti che verrebbero eliminati con un sistema diverso, in cui ad una sola Camera, dotata di poteri effettivi, fosse affiancata - secondo il modello tedesco, che sembra, per molti aspetti, il più logico - una seconda assemblea di estrazione regionale, con compiti chiaramente delimitati.

Inoltre c’è da tener presente un altro punto importante: e cioè che una riforma di questo tipo permetterebbe di ridurre notevolmente il numero dei “rappresentanti del popolo”. Riduzione che, oltre a correggere una situazione anacronistica (si pensi che i deputati e senatori italiani sono oggi 945, contro i 535 americani e i 526 tedeschi occidentali), contribuirebbe, anch’essa, a quell’aumento di efficienza che sembra essere l’obiettivo di tutti. Chi conosce il Senato americano, o gli uffici del Bundestag a Bonn, e i servizi dei quali possono disporre i singoli parlamentari  per svolgere con serietà il loro lavoro, sa che cosa questo significhi.

Con queste osservazioni non si vuol negare che esiste anche una crisi più vasta del sistema parlamentare. Ma è inutile spostare il discorso su questo piano più generale fino a quando non si fa quanto è possibile per eliminare le incongruenze e i difetti che sono davanti agli occhi di tutti”.

Antonio Gambino (1926-2009) è stato un grande giornalista e intellettuale italiano, collaboratore di riviste di cultura e giornali della sinistra, esperto come pochi di politica, specialista di politica estera, attento osservatore dei fenomeni istituzionali.

mercoledì 3 febbraio 2016

Le istituzioni di garanzia nella Riforma

Sta circolando su Twitter una grafica prodotta dal sito web www.lacostituzione.it, che da oltre 10 anni si batte per salvaguardare la Costituzione italiana da qualunque riforma, contenente informazioni non accurate. Per la verità l'autore della grafica ha riconosciuto l'errore e si è anche speso per bloccarne la diffusione (chapeau) ma come è noto una volta che la macchina della bufala è in moto è praticamente impossibile fermarla.

Per questo cogliamo l'occasione per correggere la grafica e contemporaneamente porre l'attenzione su un tema importante in una democrazia maggioritaria: quello delle istituzioni di garanzia.

Come sappiamo, con il referendum del 1993 l'Italia ha deciso di abbandonare il modello politico consensuale con cui era stata governata dalla proclamazione della repubblica, passando da una legge elettorale proporzionale a una maggioritaria. Benché a nostro avviso quella scelta sia stata positiva, è indubbio che la Costituzione sia stata scritta avendo in mente una legge elettorale proporzionale.

Per questo non è previsto uno "statuto dell'opposizione" parlamentare, mentre il quorum relativo all'elezione del Presidente della Repubblica scende fino al 50%+1 dei componenti delle Camere riunite, facilitando quindi l'elezione di un presidente di parte, come poi di fatto è accaduto nel 2006.

La riforma che abolisce il bicameralismo paritario introduce maggiori garanzie per l'opposizione. E' sorprendente leggere che secondo qualcuno d'ora in poi chi vince le elezioni prenderà tutto. E' vero il contrario: grazie alla riforma le garanzie vengono rafforzate.



Se da un lato è vero che chi vince le elezioni controllerà le istituzioni che esprimono l'indirizzo politico (Governo e presidenza delle commissioni parlamentari ordinarie -- queste ultime in assenza di accordi specifici con l'opposizione), il vincitore delle elezioni non potrà eleggere da solo il Presidente della Repubblica, i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, o i giudici costituzionali.

Consiglio Superiore della Magistratura
La legge prevede, per l'elezione dei componenti laici del CSM, un quorum del 60% dei voti espressi dal Parlamento in seduta comune. Questo quorum non cambia ed è dunque irraggiungibile da chi dispone del 54% dei seggi della sola Camera dei Deputati.
Anzi, dato che il nuovo Senato è eletto da una base elettorale diversa da quella della Camera dei Deputati e con una legge tendenzialmente proporzionale, sarà ancora più difficile per il partito di maggioranza raggiungere il quorum.

Corte Costituzionale
Discorso simile per i giudici costituzionali di nomina parlamentare. Qui il quorum è addirittura del 60% dei componenti (ben al di sopra dei numeri di cui dispone la maggioranza), ma con una variante: dopo la riforma, i giudici saranno eletti separatamente da Camera e Senato, nel numero di 3 per la prima e 2 per il secondo. Se dunque nella Camera dei Deputati al partito di maggioranza mancano 38 deputati per eleggere i giudici costituzionali, al Senato quel partito potrebbe non avere neanche la maggioranza relativa -- figuriamoci quella del 60%!

Presidente della Repubblica
Benché non sia affatto scontato che il partito che ha vinto le elezioni abbia la maggioranza assoluta dei voti del Parlamento in seduta comune (servono un minimo di 26 senatori), si è ritenuto che l'attuale quorum non garantisse sufficientemente la minoranza. Con la riforma, per eleggere il Presidente della Repubblica occorreranno gli stessi voti che servono per eleggere i membri laici del CSM: non sarà dunque più possibile l'elezione a maggioranza, come capitò nel 2006.

Statuto dell'opposizione, referendum
Non è tutto: la riforma introduce lo statuto dell'opposizione, che stabilirà ulteriori forme di tutela dell'opposizione e di partecipazione agli organismi parlamentari da parte della stessa. Viene inoltre rafforzato lo strumento del referendum abrogativo grazie a un quorum ridotto che scatta qualora vengano raccolte 800.000 firme per l'abrogazione di una disposizione di legge.

lunedì 1 febbraio 2016

Gli stipendi dei senatori

In un articolo pubblicato oggi sul Corriere della Sera, Sergio Rizzo lancia un allarme: i parlamentari si stanno già attrezzando per evitare che l'approvazione della riforma costituzionale costringa i senatori a ridurre i loro stipendi.

Benché il "documento interno" citato da Rizzo non abbia alcun valore normativo, e l'armonizzazione di cui parla possa essere interpretata in qualunque maniera (e in particolare anche nel senso di una riduzione dei rimborsi spese dei senatori, che come lo stesso Rizzo ricorda sono leggermente superiori a quelli spettanti ai deputati), possiamo capire il principio di precauzione che anima l'articolo: sui costi della politica è meglio tenere gli occhi aperti, visto che troppe volte in passato li abbiamo tenuti chiusi.

C'è però nell'articolo un errore madornale che non possiamo ignorare, anche perché riguarda l'unica variazione certa nell'indennità dei senatori della prossima legislatura. Come abbiamo detto più volte, i senatori saranno per lo più consiglieri regionali ai quali non spetterà alcuna indennità aggiuntiva oltre a quella derivante dalla loro carica locale. Il tetto a questa indennità, che è stato fissato a 11.100 euro mensili dal Governo Monti, viene notevolmente ridotto dalla riforma costituzionale, che stabilisce che gli emolumenti spettanti ai consiglieri regionali non possono essere superiori a quanto percepito dal sindaco del capoluogo di regione.


Concretamente, si tratta di un taglio drastico, visto che anche a Roma o Milano l'indennità di sindaco non arriva a 8.000 euro lordi (in capoluoghi più piccoli, la cifra è ben più bassa). Nella lodevole battaglia contro gli sprechi, non si possono ignorare i passi in avanti fatti, specialmente quando sono così rilevanti. Ci auguriamo che la prossima volta Sergio Rizzo controlli meglio tutte le fonti, prima di pubblicare inesattezze.

domenica 31 gennaio 2016

La Costituzione è da cambiare?

Cosa c'è che non va nella Costituzione italiana? Sono molti a porre questa domanda che sottende una considerazione seria: una riforma costituzionale è un evento raro, che si verifica o si dovrebbe verificare solamente quando gli atti politici ordinari rivelano limitazioni insuperabili a Costituzione vigente.

Non c'è bisogno di essere fanatici della conservazione della "Costituzione più bella del mondo" per ritenere che, se siamo sopravvissuti con il bicameralismo perfetto per 68 anni, la sua abolizione non appare così urgente. E sì, potrei dirvi che siamo l'unica repubblica parlamentare del mondo in cui le due camere hanno esattamente gli stessi poteri; che il rapporto di fiducia con entrambe le camere ha contribuito a rendere i nostri governi i più deboli del mondo occidentale; che questa riforma razionalizza il rapporto Stato-Regioni, correggendo i difetti della revisione costituzionale del 2001. Potrei andare avanti e citare altre argomentazioni, tutte validissime, e però tutte insufficienti a convincere che oggi la riforma costituzionale non è più procrastinabile.

Voglio quindi affrontare la questione da un'angolazione diversa: non i benefici che ci porterà la riforma del bicameralismo, ma i danni gravi prodotti dal non averla già approvata anni fa.

Non molti se ne sono resi conto, ma l'Italia ha già fatto una "riforma" costituzionale. L'ha fatta senza accorgersene, peggio, senza neanche volerlo. Senza un referendum, senza nemmeno un voto del Parlamento. La Costituzione è cambiata per il verificarsi, nel 2011, di una crisi politica che altrimenti non avrebbe potuto essere risolta, per via degli equilibri numerici delle forze parlamentari, bloccate da veti contrapposti che apparivano insormontabili e che dopo le elezioni politiche del 2013 si sono addirittura aggravati in quanto sanciti dal voto popolare.

Certo, parlare di "riforma" è improprio (il che motiva le virgolette), ma dire che Napolitano, dal 2011 al 2013, ha assunto poteri presidenziali, non è una semplice provocazione. Se infatti da un lato la Costituzione formalmente non è cambiata, dall'altro nel suddetto periodo il ruolo sostanziale del Presidente della Repubblica è stato quello di vera guida esecutiva dell'Italia. Ciò che, per un presidente non eletto direttamente dai cittadini, è una vera e propria eccezione.

In quest'ottica va letta la comune lamentela per il "terzo governo non eletto consecutivo": non soltanto analfabetismo costituzionale (nessun esecutivo in Italia è mai stato eletto), ma anche l'espressione autentica, ancorché ingenua e linguisticamente impropria, di una richiesta popolare che non possiamo non appoggiare: quella di avere il potere di determinare l'indirizzo politico del nostro paese per mezzo del voto. Se oggi i cittadini devono assistere impotenti al formarsi di governi innaturali, è proprio perché abbiamo rimandato la riforma del bicameralismo per 35 anni, convinti che non fosse urgente.

Oggi il Quirinale è tornato a vestire i panni di garante super partes delle istituzioni, ma nessuna delle cause che hanno costretto Giorgio Napolitano ad allargare i propri poteri è venuta meno: con la Costituzione vigente, è verosimile che un blocco del Parlamento analogo a quello dl 2013 si verifichi ancora una volta. Allora il Presidente della Repubblica dovrà nuovamente prendere in mano la situazione e non potremo più illuderci che si tratti di un evento eccezionale e irripetibile.

Per questo, al referendum del prossimo ottobre, sarà necessario votare SI': solo l'approvazione della riforma costituzionale restituirà agli elettori la facoltà di scegliere tra partiti in competizione e giudicarli, legislatura dopo legislatura, sulla base dell'attuazione del programma e dell'efficacia dell'azione di governo.