lunedì 19 dicembre 2016

Tempo di Mattarellum

In questi giorni, si riparla di Mattarellum, la legge elettorale uninominale maggioritaria al 75% e proporzionale al 25% in vigore dal 1993 al 2005, e utilizzata per l'elezione della Camera e del Senato in tre occasioni.

La legge elettorale scritta dall'attuale Presidente della Repubblica, anche nota come "l'ircocervo", è piuttosto complessa: infatti, si tratta in realtà di due leggi distinte, contraddistinte da una genesi molto particolare, su cui hanno avuto grande influenza la prima legge elettorale del Senato (in vigore fino al 1993) e il successivo referendum abrogativo del 1993.

Nei prossimi giorni, spiegheremo come funzionava il Mattarellum. Per farlo bene, però, non possiamo esimerci da una piccola parentesi storica: dovremo quindi partire dall'inizio, spiegando il funzionamento (invero piuttosto curioso) della prima legge elettorale del Senato.

La legge elettorale del Senato 1948-1993.

martedì 13 dicembre 2016

Il referendum sull'euro si può fare (sfortunatamente)

Anche se questo blog non è politicamente schierato, ciò non significa che non abbia chiari fondamenti ideologici: in particolare, riteniamo che la sola forma di democrazia compatibile con l'attuale contesto storico italiano sia quella maggioritaria e decidente.
Un elemento chiave della democrazia maggioritaria e decidente è che la forza politica che esca vincitrice dalle elezioni ha il diritto e il dovere di realizzare il proprio programma, in modo conforme al nostro ordinamento costituzionale, coerentemente con le regole che ci siamo dati, ma senza vedersi opporre lacci e lacciuoli.

Ciò vale per ogni obiettivo politico costituzionalmente legittimo: e io non dubito che l'uscita dell'Italia dalla moneta unica europea sia un obiettivo costituzionalmente legittimo. Il fatto che i costi di una tale decisione sarebbero quasi certamente tragici, non dice nulla sulla sua liceità. Il Movimento 5 Stelle ha nel proprio programma un referendum popolare sulla permanenza dell'Italia nell'euro: se, come io credo fortemente, uscire dall'euro per l'Italia sarebbe un vero disastro, il referendum sull'euro va contrastato con forza, ma nel merito, e non attaccandosi a lacci e lacciuoli.

Dopo l'intervista di Die Welt a Di Battista in cui l'esponente grillino ha ribadito l'intento di indire il suddetto referendum una volta vinte le elezioni, molti commentatori hanno liquidato la proposta con aria di sufficienza, ricorrendo al ben noto argomento secondo cui la nostra Costituzione esclude i referedum abrogativi delle leggi di ratifica dei trattati internazionali, e non prevede referendum consultivi o di indirizzo. Pertanto, prima di indire un tale referendum, bisognerebbe modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento il referendum di indirizzo: una riforma che, di per sé, dovrebbe essere approvata con referendum costituzionale, data l'implausibilità della maggioranza dei 2/3 in entrambe le camere.

Questo è ciò che dicono le opinioni raccolte dal sito Bufale un tanto al chilo, a cui aggiungiamo quella del costituzionalista Roberto Bin. Benché siano entrambe fonti delle quali ho la massima stima, nel leggerle ho avuto l'impressione di trovarmi di fronte al cardinale Voiello, potente segretario di stato della Santa Sede, interpretato da Silvio Orlando nella fiction The Young Pope, i cui metodi da vecchio politicante si rivelano però del tutto inadeguati a ostacolare il determinato, giovane e dispotico papa Pio XIII interpretato da Jude Law.

Gli ostacoli pratici a un referendum sull'euro potrebbero forse scoraggiare forze politiche come la Lega o Fratelli d'Italia, antieuropee ma non insensibili ai riti politici italiani; ma il Movimento 5 Stelle, che non riconosce tali riti e che a differenza dei due partiti di destra citati non ha parentele fasciste o razziste da farsi perdonare (pur flirtando talvolta con fascisti e razzisti), sarebbe senz'altro maggiormente spregiudicato. Non ci vuole molta fantasia per capire che, se i grillini andranno al Governo, proporranno una legge costituzionale ben diversa da quella immaginata dai nostri commentatori.

Si tratterà di una legge costituzionale che conferirà al Governo il potere di autorizzare l'uscita dall'euro per decreto, in deroga a quanto previsto dalla Costituzione. Su questa materia circoscritta, il Governo potrebbe, per un periodo di tempo limitato, emanare decreti legislativi (eventualmente anche con forza di legge costituzionale) che realizzerebbero il ritiro dell'Italia dalle disposizioni del Trattato di Maastricht che hanno introdotto l'euro.

Dunque il referendum sull'euro di cui parla Di Battista non sarebbe altro che il referendum confermativo necessario per approvare una tale delega al Governo.

Sembra fantascienza? Forse, ma mi pare che non ci sia nulla, nella Costituzione, che impedisca un tale procedimento. Chi guida il governo ha in genere la maggioranza in entrambe le Camere, e quindi anche la possibilità di approvare testi di legge costituzionale da sottoporre direttamente al giudizio degli elettori. Al contrario, se lo scorso 4 dicembre fosse stata approvata la riforma Renzi-Boschi, la diversa composizione del Senato avrebbe reso questa strada non percorribile. Eppure, quella riforma è stata respinta perché secondo alcuni ci avrebbe esposti al rischio della deriva autoritaria. L'ironia della sorte.

mercoledì 7 dicembre 2016

Il tempo delle meline

Con la crisi di governo di oggi, si apre un nuovo capitolo della storia politica italiana; e quando dico "nuovo", intendo "vecchio": da oggi il partito di maggioranza relativa torna ad essere, come nella prima repubblica, soltanto primus inter pares, e il potere politico una torta di cui ognuno può tagliarsi una fetta.

Come ci ha insegnato il fumetto di Spiderman, potere e responsabilità vanno di pari passo: a partire da oggi, i grandi partiti dovranno condividere il potere con altri soggetti molto più di quanto non abbiano fatto negli ultimi 20 anni, e questo sarà per loro motivo di dispiacere; ma potranno consolarsi ampiamente condividendo con gli altri anche le responsabilità politiche (e una responsabilità condivisa, diffusa, è qualcosa di pericolosamente vicino all'irresponsabilità totale).

C'è una prima decisione da prendere subito: proseguire la legislatura, riprendendo la discussione sulle riforme che ormai dovrà ripartire dall'inizio; o ridare la parola agli elettori, votando subito dopo che la Consulta si sarà espressa sull'Italicum? Questa decisione, si dice nel Partito Democratico, ormai non spetta più al partito di maggioranza relativa, ma ai partiti rappresentati in Parlamento nel loro complesso. Una posizione che mette insieme diversi aspetti:
  1. Il Pd è uscito sconfitto dal referendum, ma ne ha capito benissimo il senso: gli italiani si sono opposti al governo di un solo partito. E allora, il prossimo governo dovrà essere espressione di una coalizione molto ampia.
  2. Le riforme istituzionali proposte dal Pd sono state respinte, quindi necessariamente non può più essere soltanto il Pd a farsi carico di questo tema.
  3. La necessità di dotarsi di nuove leggi elettorali, che il presidente Mattarella rappresenterà ai partiti nei prossimi giorni, si scontra con la dura realtà: i partiti che fanno governi per un mero "senso di responsabilità", nelle urne pagano poi un prezzo altissimo, come sappiamo dall'esperienza del governo Monti. Non ci si può aspettare che il Pd (oggettivamente la forza politica che più avrebbe da perdere da un governo di responsabilità nazionale) si suicidi una seconda volta.
  4. Richiedendo la partecipazione di tutti alla decisione, il Pd intende svelare le contraddizioni delle forze politiche che hanno sostenuto il No al referendum costituzionale, e l'impossibilità di raggiungere un consenso su un'altra soluzione.
Quest'ultimo punto, evidentemente, è il tentativo di consumare una piccola vendetta. Soltanto un tentativo, però, dal momento che la necessità spesso apre a scenari imprevedibili, e non è da escludersi che il Parlamento possa trovare un qualche accordo.

Al momento, però, con il M5S ormai sostenitore dell'Italicum e del voto in tempi brevi, Forza Italia e partiti minori per il proporzionale, la Lega che chiede il voto immediato, e il Pd battuto che non ha né la forza né la voglia di esprimersi (anche data la cospicua presenza di dissidenti) e rimane a guardare alla finestra, non si vede come possa formarsi un governo di ampia condivisione. Ci aspetta un lungo periodo di melina, che durerà fino alla sentenza sull'Italicum.

E poi? Se la Corte Costituzionale dovesse abrogare il premio di maggioranza dell'Italicum, le ragioni per un proseguimento della legislatura rimarrebbero obiettivamente poche e lo stesso Mattarella non potrebbe non tener conto dell'abulia del Parlamento e del risultato del referendum, e dovrebbe quindi acconciarsi a sciogliere le camere. In caso di conferma dell'Italicum, invece, ci troveremmo di fronte a una situazione clamorosa: la richiesta del M5S di estendere il meccanismo del premio e del ballottaggio anche al Senato, una volta ottenuto il bollino di legittimità dai giudici costituzionali, acquisterebbe maggior forza, e chiunque volesse opporsi verrebbe facilmente accusato (con qualche ragione) di voler impedire una vittoria grillina. Anche se l'applicazione del meccanismo dell'Italicum al Senato è oggettivamente difficile (come abbiamo raccontato lunedì scorso) appellarsi a questo tecnicismo per escludere un'estensione dell'Italicum alla camera alta potrebbe rivelarsi un terribile autogol.

lunedì 5 dicembre 2016

Un Italicum su base regionale?

Nel commento al risultato del referendum, ho evidenziato che, per forza di cose, le riforme istituzionali rimangono d'attualità, essendo il sistema elettorale attualmente in vigore insoddisfacente, in special modo per quanto riguarda le profonde differenze tra la legge che regola l'elezione della Camera e quella che regola l'elezione del Senato.

Il Movimento 5 Stelle ha fatto sapere di essere favorevole a uniformare il sistema introducendo, al Senato, un Italicum su base regionale. Pare di capire che i grillini vogliano tornare ai premi di maggioranza regionali già sperimentati, con risultati disastrosi, al tempo del Porcellum. L'attribuzione di premi regionali servirebbe a conformarsi al testo costituzionale, che richiede per il Senato un'elezione su base regionale (la stessa motivazione addotta per il Porcellum nel 2005).

Ma oggi non siamo più nel 2005, e il meccanismo dei premi regionali è stato smontato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 1/2014 che ha stabilito l'incostituzionalità del Porcellum: sentenza da molti citata, ma evidentemente letta da pochissimi. La Corte Costituzionale ravvisa nei premi regionali ben due vizi di costituzionalità; leggiamo infatti nel punto 4 del considerato in diritto:
queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. 

La violazione del principio di eguaglianza del voto a cui la sentenza fa riferimento riguarda il fatto che i cittadini lombardi, decidendo su un premio di maggioranza pari a 49 seggi, avevano un potere enormemente più grande dei cittadini abruzzesi, il cui voto determinava l'attribuzione di un premio pari a 4 seggi soltanto.

La sentenza continua:
Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993. 

In aggiunta alla violazione dell'uguaglianza del voto, vi è inoltre la violazione del principio di ragionevolezza, dal momento che i premi di maggioranza regionali, tendendo ad elidersi gli uni con gli altri, finiscono spesso col produrre un risultato sostanzialmente casuale ed inidoneo a favorire la governabilità. Per cui non soltanto una tale disciplina deforma la proporzionalità nell'attribuzione dei seggi, ma lo fa senza alcun valido motivo.

Per queste ragioni, la proposta del Movimento 5 Stelle è inapprovabile. Uscire dal pantano in cui ci siamo cacciati non sarà facile.

Le riforme senza bussola

Oggi mi corre l’obbligo di scrivere qualcosa sul risultato inappellabile del referendum – un 60 a 40 per il No, che significa una sconfitta su tutta la linea per noi che avevamo creduto nella riforma fin dall’inizio – ed è un compito difficile. Nel mio blog, per regola, non si è mai parlato di Renzi (l’unica menzione del nome del Presidente del Consiglio uscente è stata nella locuzione “riforma Renzi-Boschi”), e non ho ragione per tradire questa regola.

Di che altro parlare, dunque? La domanda più importante a cui rispondere è, senza dubbio, dove ci troviamo dopo il referendum. Ancora una volta, al punto di partenza: quello del 2011, quello del 2005, quello del 1997, del 1992 e del 1983. Passano i decenni, ma ogni tentativo di riforma ci riconduce inevitabilmente all’origine. Con ogni fallimento, però, perdiamo qualcosa: la bussola che ci aveva guidato in questi ultimi 5 anni è rotta e non potremo seguirla ancora, perché gli italiani hanno detto No al principio del Senato delle autonomie; hanno detto di no alla correzione dei poteri delle regioni; hanno rifiutato la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del CNEL e delle province, e la trasformazione del bicameralismo paritario in bicameralismo asimmetrico.

E tuttavia, con buona pace di quei cittadini che hanno votato No ritenendo che le riforme istituzionali siano secondarie o inutili, e che i problemi veri sono altri, di istituzioni parleremo ancora per molti mesi, e quasi sicuramente per anni, proprio perché questo tentativo (come quelli precedenti) non ha avuto successo. A cominciare dalla legge elettorale, dato che l’Italicum regola soltanto la Camera dei Deputati, e per il Senato rimane in vigore una legge del tutto diversa: è necessario cambiare, quindi, ma non disponiamo che di strumenti incerti e inadeguati per farlo.

Infatti il risultato del referendum non ci dà alcun indizio relativamente alla direzione in cui dovremmo modificare la legge elettorale. Ci suggerisce, invece, che questa legislatura già delegittimata sul piano della credibilità della propria elezione in seguito alla sentenza Porcellum, oggi è delegittimata anche politicamente, visto come è stata ricevuta dai cittadini la riforma costituzionale, che era il suo più importante conseguimento.

Come potrà allora il nostro Parlamento produrre una nuova legge elettorale, se mancano sia un’idea condivisa degli obiettivi che una tale legge dovrebbe porsi, sia l’investitura necessaria a condurre in porto la riforma? Chiunque riceva l’incarico di guidare il prosieguo della legislatura, non potrà certo intestarsi il consenso di una parte cospicua degli italiani, che del resto sono stati chiarissimi nel dire cosa non vogliono, ma oscuri nello spiegare cosa vogliono.

Forse una pezza ce la metterà la Corte Costituzionale, che potrebbe abolire il premio di maggioranza dell’Italicum con una motivazione cerchiobottista: il premio di maggioranza è ragionevole in un sistema monocamerale o bicamerale asimmetrico, ma in presenza di un Senato paritario c’è il rischio che renda il paese meno governabile, e quindi non può essere accettato.

Il problema di questa "soluzione" è che non solo sarebbe la seconda sentenza di incostituzionalità su una legge elettorale in questa legislatura, ma stavolta non ci sarebbero né il tempo né le condizioni per addomesticarla: dovremmo per forza tornare a votare con un sistema che non è mai stato approvato da un organo provvisto della minima legittimità politica. Il principio maggioritario sancito dagli elettori con il referendum del 1993 verrebbe così divelto da un mix di accidenti storici (primo fra tutti la sostituzione del Mattarellum con un Porcellum sì incostituzionale, ma che comunque preservava il principio maggioritario) e di sentenze basate su ragioni formalmente tecnico-giuridiche, ma in pratica politicissime. A questo si aggiunga il fatto che oggi ben 9 giudici costituzionali in carica su 14 derivano, in qualche maniera, la propria carica proprio dalla legge elettorale Porcellum già giudicata incostituzionale.

Parafrasando con triste ironia il titolo del libro del prof. Stefano Ceccanti, la transizione continua e ci siamo dentro fino al collo. Fino a quando non finirà, continueremo a dire SìRiforma!

venerdì 2 dicembre 2016

Dopo il referendum

Ci siamo: finalmente domenica si vota. Per un ricercatore in informatica come me, senza ambizioni politiche, ma ansioso di rendere Italia un paese più dinamico, dotato di governi stabili, ma responsabili di fronte ai cittadini, con autonomie locali rilevanti ma non anarchiche – in poche parole, un paese più europeo – questa campagna referendaria è stata avvincente e stimolante, ma anche dura e stancante.

Giunto a questo punto, dopo tanti commenti, tante discussioni, un confronto pubblico, un aperitivo per il Sì, preparati a tempo perso tra qualche difficoltà, avrei tante cose ancora da dire: ad esempio, commentare per voi ciascuno degli articoli della riforma costituzionale. Non c’è più abbastanza tempo per un lavoro del genere, ma il Comitato Basta un Sì ha già fatto un magnifico lavoro; ai più curiosi consiglio di leggere anche il dossier della Camera dei Deputati che sintetizza il contenuto della riforma.

Oggi non è più il momento di discutere della riforma costituzionale: oggi dobbiamo pensare a cosa ci aspetta lunedì prossimo, dopo il referendum. Se questa campagna referendaria ha avuto un limite, è stato quello di presentare il voto come un punto di arrivo: la vittoria del Sì come palingenesi della politica italiana; la vittoria del No come sconfitta definitiva del nuovismo.

Non è così. Lunedì 5 dicembre sarà molto simile a sabato 3; certo, ci sarà qualcuno che riderà e qualcuno che piangerà: i primi berranno per festeggiare, i secondi per dimenticare; la differenza, però, finirà lì. L’Italia sarà ancora in viaggio, in un momento difficile della propria storia (seppur con qualche segnale incoraggiante).

Saremo ancora in viaggio: con quale destinazione, con quali progetti, con quali speranze? Il più grande rischio del No è quello di scoprire che tutti i nostri sforzi per muoverci ci hanno riportati al punto di partenza; e allora a che serve tanta fatica? Smettiamo di sprecare benzina, spegniamo il motore e rimaniamo dove siamo.

C’è un analogo rischio per il Sì: quello di credere di essere arrivati a destinazione. Non perdiamo la testa: quella costituzionale è la riforma che consente di fare le riforme. Un’automobile nuova, più moderna ed efficiente, non serve a niente se la teniamo in garage: dovremo cominciare a usarla subito senza timore, anche perché – non nascondiamocelo – avremo bisogno di tempo e di pratica per imparare a sfruttare le sue potenzialità, le sue nuove funzioni. Penso soprattutto alle funzioni non legislative del nuovo Senato: la valutazione delle politiche pubbliche, dell’attività delle pubbliche amministrazioni, e dell’impatto delle politiche dell’Unione Europea; i pareri sulle nomine di competenza del Governo; la verifica dell’attuazione delle leggi dello Stato.

Non sarà semplice dare sostanza a questi poteri, ma il loro impatto sull’efficienza della macchina dello Stato e degli enti locali potrebbe essere notevolissimo, se non ci adageremo sugli allori. Perché il riformismo è questo: sapere che il viaggio della politica non ci porta mai a una destinazione, ma sempre a un nuovo inizio e a un nuovo viaggio, da affrontare senza paura e con la stessa determinazione di quello precedente.

Domenica, finalmente, si vota Sì. Lunedì, comincia un nuovo viaggio, una nuova sfida per gli italiani che hanno il coraggio e la speranza di affrontare il futuro. E io non vedo l’ora di affrontarla insieme a tutti gli altri italiani che hanno lo stesso coraggio e la stessa speranza. Basta un Sì!