giovedì 29 giugno 2017

Sentenza Italicum: l'eccezione dei comuni

Terza puntata della nostra discussione sulla sentenza di incostituzionalità Italicum. Link diretti alle puntate precedenti
1. Sintesi della sentenza
2. Analisi generale


La decisione della Consulta sull'incostituzionalità del ballottaggio previsto dall'Italicum non si applica alla legge elettorale dei comuni. La Corte spiega questa disparità di trattamento come segue:

"È pur vero che nel sistema elettorale comunale l'elezione di una carica monocratica, qual è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell'organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all'interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall'elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale."

Qual è la forma di governo dei comuni?

Le forme di governo universalmente riconosciute come tali sono soltanto due: quella parlamentare, in cui esecutivo e legislativo sono legati dal circuito fiduciario, e quella presidenziale, in cui il circuito fiduciario è del tutto assente. Gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, e per questo motivo Obama ha governato per diversi anni nonostante il Congresso avesse una maggioranza repubblicana. La forma di governo parlamentare è propria di molti paesi europei, come l'Italia o la Germania, in cui il parlamento può licenziare il governo in qualunque momento.

Più incerta è la classificazione dei paesi come la Francia, in cui il governo è legato al parlamento da un vincolo di fiducia (o, almeno, di non sfiducia), pur essendo diretto da un presidente che non può essere sfiduciato. Vista la presenza del circuito fiduciario, è stata spesso definita "forma di governo parlamentare a tendenza presidenziale"; oggi però, si parla comunemente di sistema semi-presidenziale.

E i comuni? Il parlamentino dei comuni, il consiglio comunale, può sempre sfiduciare e licenziare sia l'esecutivo sia il suo capo (la giunta comunale e il sindaco), per cui la forma di governo è parlamentare. Una caratteristica dei comuni, però, è quella di prevedere che qualora il sindaco decada, debba essere rieletto anche il consiglio. Una parte della dottrina -- quasi esclusivamente italiana, peraltro -- ritiene che questo principio (detto simul stabunt, simul cadent) determini una forma di governo diversa, variamente denominata (semi-parlamentare, primo-ministeriale, o anche premierato forte). Evidentemente, la Corte Costituzionale italiana ha fatto propria questa classificazione che, però, non è affatto unanime.

(Nota: nella sentenza si legge che la forma di governo dei comuni non è parlamentare perché il sindaco è eletto direttamente. È uno strafalcione: la forma di governo riguarda principalmente i rapporti fra i diversi poteri dello stato, e non il modo in cui sono eletti. Secondo la Costituzione degli USA, il Presidente non è eletto direttamente dai cittadini, ma dal Collegio Elettorale o, addirittura, in alcuni rarissimi casi, dalla Camera dei Rappresentanti; ma nessuno dubita che gli USA siano una repubblica presidenziale. Viceversa, il presidente dell'Irlanda è eletto direttamente dai cittadini, pur in una repubblica parlamentare).

La differenza tra stato e comuni

La differenza tra stato e comuni è dunque la seguente: in entrambi i casi, l'organo assembleare può licenziare l'esecutivo, ma quando ciò accade le conseguenze sono ben diverse. Nel caso dei comuni, la sfiducia non comporta solo le dimissioni del sindaco, ma anche lo scioglimento del consiglio comunale; a livello nazionale, invece, il Parlamento che ha sfiduciato il governo di norma rimane in carica, può dare la fiducia a un altro governo, e viene sciolto soltanto se ogni tentativo dovesse fallire.

In parole ancora più semplici, il sindaco e il consiglio comunale hanno un rapporto paritario e formano un tutt'uno indissolubile: o vivono insieme, o muoiono insieme; il governo nazionale, invece, si confronta con il parlamento in posizione del tutto subordinata.

Sentenza Italicum e comuni

Secondo la Corte Costituzionale, il ballottaggio dell'Italicum consegna il controllo di un organo assembleare a una forza politica potenzialmente poco rappresentativa, con una disproporzionalità talmente grande da essere contraria alla Costituzione.

Ma allora secondo quale logica il ballottaggio dei comuni può essere considerato conforme alla Costituzione? Non si può certo sostenere insieme  che dare a una forza politica la maggioranza di un solo organo sia incostituzionale, mentre è perfettamente legittimo consegnare alla stessa forza politica, con un solo voto, il controllo di ben due istituzioni, tra l'altro con una disproporzionalità anche maggiore di quella dell'Italicum (il premio di maggioranza dei consigli comunali è pari al 60%)

Ben lungi dal giustificare la disproporzionalità, la diversa forma di governo dei comuni ne rende gli effetti ancora più gravi.

Come interpretare, allora, il ragionamento della Corte?

La prima possibilità è accettare che la Corte, nelle proprie sentenze, è dispensata dal mantenere una qualunque coerenza logica interna. Il ballottaggio dell'Italicum è incostituzionale, mentre quello dei comuni è costituzionale, perché così è stato deciso, e non è necessario argomentare ulteriormente. Le motivazioni della sentenza sono soltanto un accessorio.

Oppure, le conclusioni che la Corte ha tratto per l'Italicum sono valide anche per i comuni, e il passaggio della sentenza che evidenzia la differenza tra le due forme di governo significa soltanto che per la legge elettorale dei comuni non ci sono conseguenze immediate; nulla impedisce però di ricorrere in giudizio contro la legge elettorale dei comuni, utilizzando i nuovi principi delineati dalla sentenza Italicum. E dunque anche in quel caso dovrà essere pronunciata una sentenza di incostituzionalità, perché l'elezione simultanea e collegata del consiglio comunale e del sindaco rafforza le criticità del premio di maggioranza e del ballottaggio.

In entrambi i casi, pare che i giudici non abbiano ben considerato, o che abbiano sottovalutato le conseguenze delle proprie azioni. Del resto sono esseri umani anche loro: purtroppo, nel nostro ordinamento, gli errori della Corte Costituzionale sono molto difficili da correggere.

< 2. Analisi della sentenza < > 4. Tirando le somme >

lunedì 26 giugno 2017

Oltre Renzi

Interrompo il mio commento a puntate della sentenza di incostituzionalità dell'Italicum per occuparmi brevemente dell'attualità politica. Dopo un'istruttoria durata anni, si è ufficialmente aperto il processo a Renzi. Organi di informazione e reti sociali ospitano per la maggior parte esponenti dell'accusa, ma anche gli avvocati della difesa non sono pochi. Con tutto quello che ci sarebbe da cambiare in Italia, passiamo il tempo a chiederci se sia il caso di cambiare Renzi; ma c'è poco da sorprendersi: non è certo la prima volta che la politica italiana, dal capo del governo all'ultimo elettore, si guarda l'ombelico.

E noi riformisti, dove siamo? È naturale che alcuni di noi siano scontenti di alcuni aspetti della parabola politica di Renzi e che in altri prevalga la riconoscenza per ciò che ha fatto; ciononostante, un riformista adulto ha il dovere di non prestarsi a questo teatrino.

Renzi sta commettendo troppi errori?

I riformisti critici ritengono che se Renzi avesse preso decisioni diverse avrebbe potuto evitare le ultime sconfitte. È un classico argomento preso dal catalogo del "senno del poi". Se Renzi avesse preso decisioni diverse, chissà se ci sarebbero mai stati la riduzione dell'Irpef o il Jobs act; il referendum costituzionale non lo avrebbe perso perché forse non ci sarebbe mai stata una riforma. Infatti, a pensarci bene, se Renzi avesse preso decisioni diverse è probabile che non sarebbe mai diventato premier.

Da Tangentopoli a oggi ho visto tanti tentativi di riformismo; altri tentativi, precedenti, me li hanno raccontati. In ognuna di queste esperienze si sono fatti errori che la volta successiva si è cercato di evitare. Ecco dunque il problema del "senno del poi": anche ammesso che dica correttamente dove si è sbagliato, non ci spiega mai quale sarebbe stata la strada giusta.

Meglio dunque accettare che qualunque esperienza politica è costellata di errori, e valorizzare ciò che si riesce a raccogliere nonostante gli errori commessi: non poco, in questo caso.

Renzi è, ancora oggi l'unico che può cambiare l'Italia?

Ci sono ancora degli entusiasti di Renzi, che lo considerano l'unico ancora in grado di cambiare l'Italia.
Però, è molto probabile che si sbaglino. Renzi non può più cambiare l'Italia, esattamente come non possono riuscirci i suoi avversari. Infatti, persino un improbabile Macron italiano, cosa potrebbe mai fare in un sistema politico-istituzionale liquefatto come il nostro? In Francia un leader politico può formare intorno a sé un partito nel giro di pochi mesi, ottenere un discreto 24% al primo turno delle elezioni presidenziali, e trasformarlo in un'ampia maggioranza monocolore nel giro di un mese e mezzo. In Italia, per ottenere lo stesso risultato, sarebbe necessario raccogliere come minimo il 45% dei voti nell'unico turno di elezioni politiche, sia alla Camera sia al Senato, il che è impensabile per un outsider, ma proibitivo anche per partiti radicati.

Siamo seri: è un miracolo che non può compiere nessuno, e neanche Renzi che oggi, a differenza che nel 2014, è zavorrato da un dissenso sulla sua persona che non cesserà, qualunque cosa accada.

Abbiamo bisogno di Renzi? Abbiamo bisogno del Pd?

Mettiamoci l'anima in pace: il proporzionale in Italia resterà ancora a lungo.
E con il proporzionale, sprecare le proprie forze litigando su chi debba essere il leader non ha senso.
Io sono ancora più radicale e sono convinto che arrivati a questo punto, sia il Pd stesso, per come è stato pensato, a non avere più senso. Il Pd è un partito pensato per elezioni in cui la competizione è tra alternative di governo: l'unica cosa certa delle prossime elezioni, invece, è che nessuno potrà governare senza dover mediare con un'ampia coalizione di partiti che hanno fatto ai propri elettori promesse anche molto diverse fra loro.

Ci vuole un po' di cinismo, ma la lezione che dobbiamo trarre è che, in vista delle prossime elezioni politiche, il Pd non è il miglior veicolo possibile per le idee riformiste. E Renzi, che è stato il migliore interprete delle nostre idee nell'ultima fase della cosiddetta seconda repubblica, non potrà avere lo stesso ruolo nella prossima legislatura.

È molto probabile che la cosa migliore, per il partito del Sì, sia collocarsi nella sua posizione naturale, al centro della scena politica, che è anche il luogo in cui le sue idee possono essere più efficaci.
Il proporzionale, per l'Italia, è una tragedia, ma noi abbiamo la possibilità di trasformarlo in opportunità.

Per farlo, però, dobbiamo emanciparci da Renzi, dal Pd, e unirci a quegli italiani che hanno votato Sì al referendum costituzionale pur provenendo da esperienze politiche diverse. Oltre Renzi e oltre il Pd per salvare ciò che di buono abbiamo costruito in questi anni.

Ci sarà qualcuno in grado di prendere questa difficile decisione, e cambiare il nostro futuro politico? O dovremo rassegnarci a vedere le prossime elezioni trasformate in un noioso e inutilissimo verdetto popolare su Renzi?

venerdì 23 giugno 2017

Italicum: analisi di una sentenza

Dopo la necessaria sintesi delle motivazioni della sentenza Italicum, che trovate nel mio post di ieri, veniamo dunque alla loro analisi critica.

I tre elementi di incostituzionalità.

Si legge nella sentenza che il turno di ballottaggio dell'Italicum è incostituzionale per la presenza contemporanea di tre elementi: l'assenza di una soglia per l'accesso (eccetto la soglia di sbarramento del 3%, evidentemente inadeguata), la designazione del vincitore sulla base della maggioranza dei voti espressi (e non degli elettori iscritti), e il divieto di collegamenti o apparentamenti tra liste dopo il primo turno.

Abbiamo già notato come sia impossibile designare un vincitore sulla base di una quota degli aventi diritto al voto e, contemporaneamente, mantenere il carattere majority-assuring del sistema elettorale: gli esclusi dal ballottaggio farebbero campagna per l'astensione attiva con l'unico scopo di far saltare il premio di maggioranza; del resto, si fa così ai referendum abrogativi, dove il quorum è calcolato sulla maggioranza degli elettori: far dipendere l'esito non di un referendum, ma delle elezioni politiche, da una campagna astensionistica sarebbe un'assurdità su cui non vale la pena neanche spendere tempo.

Sarebbe invece possibile stabilire l'accesso al turno di ballottaggio non delle due liste più votate al primo turno, ma di tutte quelle liste che superino una certa soglia, per esempio il 25%, il che consentirebbe dei ballottaggi a tre. A questo punto, però, bisognerebbe stabilire che cosa accadrebbe qualora nessuna lista superi la soglia (evento non improbabile: il presidente francese Macron, al primo turno, si è fermato al 24%, e tutti gli altri hanno avuto meno; oggi governa con la maggioranza assoluta). Evidentemente non si potrebbero mandare comunque al secondo turno le due liste più votate, perché ciò costituirebbe ancora un ballottaggio senza soglia.

Pertanto anche questo elemento di incostituzionalità non potrebbe essere eliminato senza rinunciare al carattere majority-assuring della legge elettorale. Rimane dunque da considerare soltanto la questione degli apparentamenti.

Dice la Corte che in assenza di apparentamenti "il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione". Se il ballottaggio è un proseguimento del primo turno, ragionano i giudici, per vincere il ballottaggio non può bastare la maggioranza dei votanti del secondo turno, ma bisogna anche avere una certa legittimazione sulla base dei votanti del primo turno o degli elettori totali.

Il mio punto di vista è differente. L'Italicum era congegnato in maniera tale da richiedere, per il vincere il ballottaggio, il superamento di due barriere: non solo il 50%+1 al secondo turno, ma anche un numero di voti sufficiente a classificarsi almeno secondi nel primo turno di votazione. Il fatto che questa seconda soglia sia mobile, non numericamente predeterminata, non autorizza a dire che sia di per sé inesistente o che consenta a partiti privi di qualunque base elettorale di ottenere il premio di maggioranza. Soltanto enfatizzando casi limite si può sostenere il contrario; ma se si enunciano principî giuridici basandosi sui casi limite, si giunge inevitabilmente al paradosso: persino le soglie di sbarramento, in presenza di una frammentazione smisurata, potrebbero consegnare la maggioranza assoluta dei seggi a chi abbia conseguito una piccola minoranza di voti; ciononostante, nessuno può seriamente ritenere che siano incostituzionali.

Dire che la soglia per l'accesso al ballottaggio deve essere fissata una volta per tutte dalla legge e non dipendere dal comportamento dei cittadini al voto è un'assunzione arbitraria: si sarebbe potuto dire che in presenza di un incentivo all'aggregazione (il premio di maggioranza) e di disincentivi alla disgregazione (la soglia di sbarramento), le due liste più votate del primo turno necessariamente superano una soglia implicita che ne garantisce la base elettorale, e che ciò dimostra la proporzionalità e ragionevolezza del premio.

Il ragionamento della Corte è dunque viziato da un a priori che trovo non condivisibile; d'altra parte, adottare un principio del genere, indipendentemente dal fatto che sia inadeguato, rientra senz'altro nella discrezionalità della Consulta. Il problema, caso mai, sono le conseguenze.

La questione degli apparentamenti.

Se stabiliamo che per assegnare un premio di maggioranza a chi abbia conseguito il 50%+1 dei voti del secondo turno occorre che il secondo turno sia congegnato come una votazione del tutto separata, occorre capire che cosa si intende per "votazione del tutto separata".

Nella sentenza Italicum si parla di apparentamenti o collegamenti fra liste. Va bene, ma con quale meccanismo? Qualunque forma di apparentamento è idonea allo scopo?
Prendiamo ad esempio il meccanismo utilizzato per i consigli comunali delle maggiori città: le due forze politiche che hanno conseguito il maggior numero di voti, e quindi accedono al ballottaggio, hanno la facoltà di "allargarsi" collegandosi ad altre forze politiche che sono state escluse; il premio di maggioranza verrà dunque condiviso tra tutte le liste collegate, anche al secondo turno.

Nei comuni, dunque, l'apparentamento dipende dal buon cuore di chi si è già qualificato al ballottaggio; ed è bene ricordare che, come nell'Italicum, l'accesso al ballottaggio non richiede il superamento di una soglia numericamente predeterminata. Anche in questo caso, dunque, il secondo turno è una mera prosecuzione del primo.

Diverso sarebbe il caso in cui accedano al ballottaggio le prime due forze politiche del primo turno (qualunque percentuale di voti abbiano conseguito) e, inoltre, tutte le forze politiche che abbiano superato, poniamo, il 25% dei voti, anche mediante apparentamenti successivi al primo turno. Immaginiamo cioè che al primo turno si siano presentate le seguenti forze politiche:

A30%
B18%
C17%
D16%
E9%
F6%
G4%

In questo caso il secondo turno sarebbe autenticamente separato, perché una coalizione di C ed E, assommando più del 25% dei voti del primo turno, potrebbe accedere al ballottaggio anche senza collegarsi ad A o B.

La legge elettorale dei comuni è a rischio?

In teoria no, perché la Consulta, rendendosi conto delle implicazioni della sentenza che stava scrivendo, l'ha blindata.
Secondo i giudici costituzionali, dato che la forma di governo dei comuni non è di tipo parlamentare, al loro organo di rappresentanza assembleare non si applicano gli stessi principî che hanno ispirato la sentenza Italicum.

Questo passaggio della sentenza è goffamente difensivo. Non basta dire che la forma di governo dei comuni è diversa (sempre che lo sia): bisogna anche spiegare quali sono le differenze e per quali ragioni queste differenze impediscono di giungere alle stesse conclusioni che la Corte ha tratto nei confronti dell'Italicum. Ne discuteremo nella prossima puntata.

< 1. Motivazioni della sentenza < > 3. L'eccezione dei comuni >

giovedì 22 giugno 2017

Italicum: le motivazioni della sentenza

Sono molto critico nei confronti della sentenza n. 35/2017, con cui la Corte Costituzionale ha eliminato il ballottaggio dell'Italicum. Nei prossimi giorni, cercherò di spiegare gli enormi punti deboli di questa sentenza. Non mi sfugge che il compito dei giudici, in questo caso, era particolarmente difficile; il risultato, comunque, è molto scadente sotto il profilo della coerenza logica, perché i giudici si erano prefissi l'obiettivo impossibile di intervenire sull'Italicum senza che ciò avesse conseguenze per altre leggi vigenti, o per la legittimità di altri sistemi elettorali applicati in paesi diversi dal nostro, e che in futuro si potrebbe volere applicare anche in Italia.

In questo primo articolo, trovate una sintesi delle motivazioni dell'incostituzionalità del turno di ballottaggio previsto dall'Italicum. I lettori più curiosi potranno approfondire leggendo la sentenza al punto 9 del Considerato in diritto.

Che cosa ha stabilito la Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha stabilito che il premio di maggioranza assegnato mediante ballottaggio come previsto dalla legge elettorale "Italicum" per l'elezione della Camera dei Deputati è costituzionalmente illegittimo in quanto:
  1. potrebbe accedere al ballottaggio anche una lista che abbia ricevuto soltanto il 3% dei voti validi
  2. il vincitore è determinato sulla base dei voti espressi e non degli aventi diritto
  3. tra il primo e il secondo turno non sono consentiti apparentamenti tra liste, pertanto il ballottaggio non è una seconda votazione, ma una prosecuzione della prima
Questi tre fattori insieme non hanno superato lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza della Corte.

In altre parole, sembra che l'incostituzionalità derivi dalla presenza contemporanea di queste caratteristiche, ma una legge elettorale majority-assuring potrebbe comunque essere ammissibile, posto che si preveda una soglia di accesso più congrua oppure la possibilità degli apparentamenti (mentre se il vincitore del ballottaggio fosse determinato sulla base di una percentuale degli elettori iscritti, si introdurrebbe per forza di cose la possibilità che nessuna forza politica vinca).

Il premio di maggioranza e la "logica prevalente" proporzionale

La Corte aveva già stabilito, nella sentenza 1/2014 (che ha bocciato il "porcellum", o legge Calderoli), che una disproporzionalità non limitata da opportune soglie di accesso è incostituzionale.
La nuova sentenza estende la precedente in quanto la disproporzionalità deve essere valutata relativamente ai voti ricevuti al primo turno.

Ma ribadisce anche che il limite alla disproporzionalità non è assoluto. Una disproporzionalità ampia, potenzialmente illimitata, è consentita nei sistemi elettorali di tipo uninominale maggioritario.
La "logica prevalente" dell'Italicum, invece, è proporzionale (secondo la Corte!), per cui una disproporzionalità più ridotta di quella possibile nei sistemi uninominali rimane incostituzionale.

La governabilità è meno importante

Va inoltre considerato che l'Italia è una repubblica parlamentare: pertanto ogni sistema elettorale deve essere prima di tutto finalizzato a garantire la rappresentatività, e solamente in subordine può favorire la governabilità.

Da quanto detto sopra, si deduce che la parola "rappresentatività" può significare due cose distinte:
  • la ripartizione delle quote di voto nazionali secondo un sistema di voto proporzionale
  • l'individuazione di un rappresentante territoriale collegio per collegio (secondo un sistema di voto uninominale maggioritario), anche senza riguardo per le quote di voto nazionali
Non è invece un elemento di rappresentatività (secondo la Corte!) l'individuazione popolare di una maggioranza di governo, mediante premio di maggioranza.

I comuni sono esentati

In ultimo, la Corte ha deciso di proteggere la legge elettorale dei comuni dagli effetti di questa sentenza. Dato che nei comuni c'è una forma di governo diversa, che prevede l'elezione diretta congiunta sia dell'organo assembleare sia di quello monocratico titolare dell'esecutivo locale, i limiti al premio di maggioranza qui descritti non si applicano.

> 2. Analisi della sentenza >

domenica 18 giugno 2017

Violante e l'anti-lezione del 4 dicembre

In un articolo di oggi per il Corriere, Luciano Violante afferma che l'Italia ha ancora bisogno di riforme, il che è senz'altro vero. Per non rompere il filo delle riforme, è opportuno che vincitori e vinti comprendano la lezione del 4 dicembre.

Sarà. Ma nel discorso di Violante più che una lezione per vincitori e vinti vedo soltanto una anti-lezione per i soli vinti. Con le parole rispettabili e moderate che gli sono proprie, Violante propone una controriforma mortale: ridurre il potere del governo mediante limiti ai decreti e alla questione di fiducia. Sulla qual cosa, dice, tutti i partiti sarebbero d'accordo.

Ecco un esempio di come, talvolta, si possa dire una menzogna sostanziale mediante parole soltanto formalmente vere.

E' infatti vero che i partiti si erano accordati sui limiti alla decretazione d'urgenza e ai maxi-emendamenti, ma l'accordo derivava dal fatto che, contemporaneamente, si rendeva più solido e disciplinato il Parlamento, eliminando il bicameralismo paritario e introducendo una legge elettorale molto legittimante per la maggioranza di governo.

Ed è qui che casca l'asino: se il Parlamento continua ad essere una palude, io non voglio introdurre maggiori limiti alla decretazione d'urgenza e alla questione di fiducia, che pure in astratto vorrei, perché in queste condizioni sono il male minore. E credo di non essere il solo.

Ecco perché lo spacchettamento delle riforme costituzionali non si poteva fare prima del 4 dicembre e continua ad essere inaccettabile. Se la lezione del 4 dicembre è la resa incondizionata dei riformisti, grazie, ma no grazie!

Accolgo comunque l'invito di Violante ad approvare qualche riforma piccola piccola ma efficace. Ne propongo una: rivediamo sì i regolamenti parlamentari, ma per stabilire che un deputato o senatore può aderire soltanto al gruppo parlamentare di elezione o a quello misto.

mercoledì 7 giugno 2017

Il divide et impera di Napolitano

Siccome stimo Napolitano, sono convinto che alla maggior parte delle cose che ha detto ieri non crede neanche lui.

Non credo che secondo lui le elezioni anticipate siano un colpo alla credibilità dell'Italia perché "in tutte le democrazie si vota a scadenza naturale". Domani, qui in Regno Unito, si vota con tre anni di anticipo sulla scadenza della legislatura, grazie a un accordo tra Conservatori e Laburisti criticabile quanto si vuole, ma che certamente non ha nuociuto alla credibilità del paese.

(Sono altre le cose che nuocciono alla credibilità del paese: per esempio i risultati dei referendum -- naturalmente mi riferisco a quello britannico sulla Brexit; i risultati dei referendum italiani sono sempre apprezzati da tutti data la nota lungimiranza dei nostri concittadini)

Non credo che possa essere sinceramente indignato per una "legge elettorale fatta da quattro leader per calcolo di convenienza". Tutte le leggi elettorali sono fatte per calcolo di convenienza, incluse il proporzionale classico del 1948, la legge truffa del 1953, il mattarellum del 1993, il porcellum del 2006 e l'italicum del 2015, Anzi, mi passate un'osservazione ardita? Sono stati fatti per convenienza, o con un occhio alla convenienza, anche i due consultella del 2013 e del 2017.

Le leggi elettorali non si dividono in leggi interessate e leggi disinteressate, perché nessun partito, tranne forse i radicali, ha mai voluto per puro altruismo una legge destinata a ucciderlo.
Le leggi elettorali si dividono in leggi con effetti maggioritari e leggi con effetti proporzionali: le prime aiutano ad individuare un vincitore che sarà poi incaricato di governare; le seconde costringono i partiti a trovare un accordo rappresentativo della maggioranza dei cittadini. Si dividono inoltre in leggi che contrastano la frammentazione e leggi che la facilitano. Il sistema para-tedesco all'esame del Parlamento è quindi una legge che limita la frammentazione e costringe ad accordi.

E veniamo dunque agli accordi. Non credo che Napolitano possa essere contro le larghe intese, la grande coalizione, il governissimo. Non lo credo perché gli unici due governi italiani di grande coalizione li ha assemblati lui, pezzo dopo pezzo, forzando la mano di partiti contrari ad accordarsi (cosa di cui non cesserò mai di ringraziarlo: non l'avesse fatto, l'Italia avrebbe dichiarato l'insolvenza). Non lo credo perché, quando si è capito che al ballottaggio dell'Italicum il M5S avrebbe anche potuto vincere, Napolitano è tornato ad auspicare un accordo di tutte le forze politiche non populiste. Napolitano adora le larghe intese.

Non credo che Napolitano sia contrario a una legge proporzionale perché convinto che sia possibile una legge maggioritaria. Questo è un pensiero che possono avere i 60 milioni di leader politici e ct della nazionale mancati. Napolitano no: Napolitano è troppo intelligente e troppo informato sugli equilibri politici per non sapere che un parlamento in cui la totalità dei partiti politici (tranne al massimo il Pd; forse!) sono avvantaggiati dal proporzionale non approverà mai (mai!) una legge maggioritaria.

E allora, come si spiegano le parole di Napolitano? In una maniera molto semplice: Napolitano, non diversamente da Bersani o Alfano, ritiene che lo sbarramento al 5% sia troppo elevato. Non vuole una legge maggioritaria: vuole una legge proporzionale meno selettiva.

Per quale ragione? Una legge con uno sbarramento al 3% renderebbe possibile una moltiplicazione delle liste. Non solo sinistra radicale e Alfano, ma anche un partito di Bersani e uno di Pisapia, e forse un partito dell'Ulivo alternativo al Pd renziano, guidato da Letta e benedetto da Prodi.
Con una tale proliferazione di partiti, uno per ogni gusto, si pensa forse di togliere ai cinque stelle il voto di chi li vede come la forza politica anti-Renzi e anti-Berlusconi. Alla fine avremmo sempre un governo di grande coalizione, ma composto da una decina di forze politiche invece che da due.

Pare che la legge elettorale para-tedesca con lo sbarramento al 5% sia in bilico, quindi può darsi che vedremo se questa strategia divide et impera di Napolitano sia efficace oppure, come temo, soltanto un gioco pericoloso.