martedì 16 febbraio 2016

Parole attuali su un'Italia inattuale

Il prof. Guido Melis ha pubblicato su Facebook un articolo del quotidiano la Repubblica sulla riforma del Senato. Vi chiederete che cosa ci sia di tanto speciale in questo articolo: non tanto i contenuti, su cui concordiamo integralmente, ma la data di pubblicazione: infatti, è stato scritto quasi 40 anni fa.
Come si può scrivere un articolo tanto attuale con quarant'anni di anticipo? Da un lato, merito del giornalista; dall'altro, demerito di un'Italia che in tutto questo tempo non ha saputo cambiare mentre il mondo cambiava attorno a lei. In questo ravvisiamo anche la responsabilità di alcuni quotidiani, come appunto la Repubblica, che nel 1979 doveva essere più moderna di quanto non sia oggi.

A che serve il Senato?
di Antonio Gambino (la Repubblica, 26 agosto 1979)

Nei mesi scorsi si è parlato più volte della possibilità, e persino della necessità, di una riforma costituzionale. Al centro di questi discorsi vi era l’esigenza di rendere più rapido ed efficace il sistema decisionale, attraverso un rafforzamento dell’esecutivo. Ci si può chiedere se lo stesso obiettivo non possa essere raggiunto attraverso una radicale modifica dell’attuale sistema bicamerale.

Vale innanzitutto la pena di ricordare che l’assetto oggi esistente è stato il frutto di un processo tortuoso e faticoso. Presa una decisione di massima favorevole al bicameralismo, i “costituenti” si scontrarono a lungo, nel 1946-’47, sul carattere specifico da dare ai due organismi, in primo luogo perché la Dc era favorevole a un Senato che fosse, in qualche modo, un’assemblea delle professioni e dei mestieri. Le sinistre si batterono contro questa impostazione, non solo perché essa ricordava troppo da vicino le formule corporative fasciste, ma perché il metodo di elezione rischiava di dar vita ad un organismo di dubbio carattere democratico.

Il risultato fu un compromesso, in base al quale Camera e Senato venivano a distinguersi unicamente per l’età degli elettori (21, ed oggi 18 per la prima, e 25 per il secondo); per il funzionamento della legge elettorale (il Senato ha circoscrizioni più ristrette che favoriscono, ancora di più di quanto non avvenga per la Camera, i partiti maggiori); per il numero dei membri (attualmente 630 per la Camera e 315 per il Senato); infine per la diversa durata. Quest’ultimo punto, tuttavia, fu corretto già alla fine della prima legislatura repubblicana. Il risultato fu di due assemblee che - come oltre trent’anni di esperienza hanno ampiamente dimostrato - erano sostanzialmente un doppione. Questa situazione è del tutto originale. Nessuno degli Stati del mondo a regime democratico-liberale ha infatti un assetto costituzionale simile al nostro.

Da un lato, infatti, vi sono paesi come l’Inghilterra, in cui la Camera Alta ha peduto da tempo ogni potere effettivo. Dall’altro vi è il modello della Repubblica Federale Tedesca. dove il Senato (il Bundesrat) non solo è un corpo estremamente ristretto, ma ha funzioni limitate a talune materie costituzionali, e all’approvazione dei trattati internazionali. Inoltre i suoi rappresentanti non vengono eletti dal popolo ma sono scelti dai governi dei vari Laender.

Ad un concetto del tutto differente si ispira la Costituzione degli Stati Uniti, dove il vero potere risiede nel Senato, la cui particolarità è di non essere eletto secondo un criterio proporzionale (come la Camera dei rappresentanti) ma di avere due membri per ciascuno dei 50 Stati, senza differenza tra quelli che hanno poche centinaia di migliaia di abitanti e quelli che ne hanno invece decine di milioni. La Costituzione americana, infatti, parte dal principio che tutte le decisioni che riguardano il destino del Paese devono avere l’appoggio della maggioranza non solo dei cittadini ma degli Stati che partecipano alla federazione.

Ognuno di questi tre sistemi ha indubbiamente una sua logica interna, che non si riscontra invece nell’ordinamento italiano. Posto che a vigilare sulla legittimità delle leggi provvede la Corte costituzionale, non si vede quale “principio di ragion sufficiente” giustifichi l’esistenza di due assemblee legislative, sostanzialmente identiche.

Questa duplicazione è, non solo inutile, ma nociva. Basti pensare all’assurda procedura delle dichiarazioni che ogni nuovo presidente del Consiglio deve fare, in rapida successione, in entrambi i rami del Parlamento e al doppio dibattito sulla fiducia; oppure ai lunghi patteggiamenti necessari per bilanciare, nei vari governi, il numero dei senatori e dei deputati; o infine al rimbalzare , tra Montecitorio e Palazzo Madama, delle leggi che, già approvate in una sede, vengono nell’altra modificate, spesso solo ubbidendo solo a esigenze clientelari, e talvolta in base a veri e propri colpi di mano. Tutti inconvenienti che verrebbero eliminati con un sistema diverso, in cui ad una sola Camera, dotata di poteri effettivi, fosse affiancata - secondo il modello tedesco, che sembra, per molti aspetti, il più logico - una seconda assemblea di estrazione regionale, con compiti chiaramente delimitati.

Inoltre c’è da tener presente un altro punto importante: e cioè che una riforma di questo tipo permetterebbe di ridurre notevolmente il numero dei “rappresentanti del popolo”. Riduzione che, oltre a correggere una situazione anacronistica (si pensi che i deputati e senatori italiani sono oggi 945, contro i 535 americani e i 526 tedeschi occidentali), contribuirebbe, anch’essa, a quell’aumento di efficienza che sembra essere l’obiettivo di tutti. Chi conosce il Senato americano, o gli uffici del Bundestag a Bonn, e i servizi dei quali possono disporre i singoli parlamentari  per svolgere con serietà il loro lavoro, sa che cosa questo significhi.

Con queste osservazioni non si vuol negare che esiste anche una crisi più vasta del sistema parlamentare. Ma è inutile spostare il discorso su questo piano più generale fino a quando non si fa quanto è possibile per eliminare le incongruenze e i difetti che sono davanti agli occhi di tutti”.

Antonio Gambino (1926-2009) è stato un grande giornalista e intellettuale italiano, collaboratore di riviste di cultura e giornali della sinistra, esperto come pochi di politica, specialista di politica estera, attento osservatore dei fenomeni istituzionali.

mercoledì 3 febbraio 2016

Le istituzioni di garanzia nella Riforma

Sta circolando su Twitter una grafica prodotta dal sito web www.lacostituzione.it, che da oltre 10 anni si batte per salvaguardare la Costituzione italiana da qualunque riforma, contenente informazioni non accurate. Per la verità l'autore della grafica ha riconosciuto l'errore e si è anche speso per bloccarne la diffusione (chapeau) ma come è noto una volta che la macchina della bufala è in moto è praticamente impossibile fermarla.

Per questo cogliamo l'occasione per correggere la grafica e contemporaneamente porre l'attenzione su un tema importante in una democrazia maggioritaria: quello delle istituzioni di garanzia.

Come sappiamo, con il referendum del 1993 l'Italia ha deciso di abbandonare il modello politico consensuale con cui era stata governata dalla proclamazione della repubblica, passando da una legge elettorale proporzionale a una maggioritaria. Benché a nostro avviso quella scelta sia stata positiva, è indubbio che la Costituzione sia stata scritta avendo in mente una legge elettorale proporzionale.

Per questo non è previsto uno "statuto dell'opposizione" parlamentare, mentre il quorum relativo all'elezione del Presidente della Repubblica scende fino al 50%+1 dei componenti delle Camere riunite, facilitando quindi l'elezione di un presidente di parte, come poi di fatto è accaduto nel 2006.

La riforma che abolisce il bicameralismo paritario introduce maggiori garanzie per l'opposizione. E' sorprendente leggere che secondo qualcuno d'ora in poi chi vince le elezioni prenderà tutto. E' vero il contrario: grazie alla riforma le garanzie vengono rafforzate.



Se da un lato è vero che chi vince le elezioni controllerà le istituzioni che esprimono l'indirizzo politico (Governo e presidenza delle commissioni parlamentari ordinarie -- queste ultime in assenza di accordi specifici con l'opposizione), il vincitore delle elezioni non potrà eleggere da solo il Presidente della Repubblica, i componenti laici del Consiglio Superiore della Magistratura, o i giudici costituzionali.

Consiglio Superiore della Magistratura
La legge prevede, per l'elezione dei componenti laici del CSM, un quorum del 60% dei voti espressi dal Parlamento in seduta comune. Questo quorum non cambia ed è dunque irraggiungibile da chi dispone del 54% dei seggi della sola Camera dei Deputati.
Anzi, dato che il nuovo Senato è eletto da una base elettorale diversa da quella della Camera dei Deputati e con una legge tendenzialmente proporzionale, sarà ancora più difficile per il partito di maggioranza raggiungere il quorum.

Corte Costituzionale
Discorso simile per i giudici costituzionali di nomina parlamentare. Qui il quorum è addirittura del 60% dei componenti (ben al di sopra dei numeri di cui dispone la maggioranza), ma con una variante: dopo la riforma, i giudici saranno eletti separatamente da Camera e Senato, nel numero di 3 per la prima e 2 per il secondo. Se dunque nella Camera dei Deputati al partito di maggioranza mancano 38 deputati per eleggere i giudici costituzionali, al Senato quel partito potrebbe non avere neanche la maggioranza relativa -- figuriamoci quella del 60%!

Presidente della Repubblica
Benché non sia affatto scontato che il partito che ha vinto le elezioni abbia la maggioranza assoluta dei voti del Parlamento in seduta comune (servono un minimo di 26 senatori), si è ritenuto che l'attuale quorum non garantisse sufficientemente la minoranza. Con la riforma, per eleggere il Presidente della Repubblica occorreranno gli stessi voti che servono per eleggere i membri laici del CSM: non sarà dunque più possibile l'elezione a maggioranza, come capitò nel 2006.

Statuto dell'opposizione, referendum
Non è tutto: la riforma introduce lo statuto dell'opposizione, che stabilirà ulteriori forme di tutela dell'opposizione e di partecipazione agli organismi parlamentari da parte della stessa. Viene inoltre rafforzato lo strumento del referendum abrogativo grazie a un quorum ridotto che scatta qualora vengano raccolte 800.000 firme per l'abrogazione di una disposizione di legge.

lunedì 1 febbraio 2016

Gli stipendi dei senatori

In un articolo pubblicato oggi sul Corriere della Sera, Sergio Rizzo lancia un allarme: i parlamentari si stanno già attrezzando per evitare che l'approvazione della riforma costituzionale costringa i senatori a ridurre i loro stipendi.

Benché il "documento interno" citato da Rizzo non abbia alcun valore normativo, e l'armonizzazione di cui parla possa essere interpretata in qualunque maniera (e in particolare anche nel senso di una riduzione dei rimborsi spese dei senatori, che come lo stesso Rizzo ricorda sono leggermente superiori a quelli spettanti ai deputati), possiamo capire il principio di precauzione che anima l'articolo: sui costi della politica è meglio tenere gli occhi aperti, visto che troppe volte in passato li abbiamo tenuti chiusi.

C'è però nell'articolo un errore madornale che non possiamo ignorare, anche perché riguarda l'unica variazione certa nell'indennità dei senatori della prossima legislatura. Come abbiamo detto più volte, i senatori saranno per lo più consiglieri regionali ai quali non spetterà alcuna indennità aggiuntiva oltre a quella derivante dalla loro carica locale. Il tetto a questa indennità, che è stato fissato a 11.100 euro mensili dal Governo Monti, viene notevolmente ridotto dalla riforma costituzionale, che stabilisce che gli emolumenti spettanti ai consiglieri regionali non possono essere superiori a quanto percepito dal sindaco del capoluogo di regione.


Concretamente, si tratta di un taglio drastico, visto che anche a Roma o Milano l'indennità di sindaco non arriva a 8.000 euro lordi (in capoluoghi più piccoli, la cifra è ben più bassa). Nella lodevole battaglia contro gli sprechi, non si possono ignorare i passi in avanti fatti, specialmente quando sono così rilevanti. Ci auguriamo che la prossima volta Sergio Rizzo controlli meglio tutte le fonti, prima di pubblicare inesattezze.