venerdì 27 gennaio 2017

Mattarellum: il diavolo è nei dettagli

Si fa presto a dire Mattarellum. La legge elettorale in vigore tra il 1993 e il 2005 viene spesso evocata come esempio di legge ben scritta, da un parlamento illuminato che non intendeva favorire nessuno.

In questo blog non facciamo agiografia. Sappiamo che il Mattarellum fu scritto da partiti che tenevano molto all'autoconservazione (e fu per questo aspramente criticato dal movimento referendario che aveva vinto il referendum per l'uninominale del 1993), ma nonostante questo si rivelò una legge relativamente buona. Per questo, se il Parlamento volesse tornare a quel sistema elettorale, saremmo favorevoli.

Ma è questo ciò che il Parlamento vuole? Purtroppo, sembra che molti abbiano in mente un Mattarellum declinato in una versione annacquata: non più 75% uninominale e 25% proporzionale, ma 50%-50%. Questo, si dice, perché l'Italia non è più un sistema politico bipolare, e quindi la quota proporzionale dovrebbe essere maggiormente valorizzata.

In realtà, l'Italia non era bipolare neanche nel 1993, quando il Mattarellum fu approvato; veniva anzi descritta come divisa in tre: un nord a trazione leghista, un centro dominato dal Pds, e un sud democristiano. Il bipolarismo arrivò soltanto due anni più tardi, proprio grazie alla nuova legge.

Sarebbe dunque auspicabile maggiore onestà: chi vuole un Mattarellum fifty-fifty non è mosso da chissà quali ragioni tecniche, ma vuole soltanto far pesare un diverso equilibrio politico. Nel 1993, si usciva da un referendum che aveva introdotto il maggioritario; oggi, un referendum ha aperto la porta al proporzionale.

Quando si parla di Mattarellum fifty-fifty, è ovvio pensare che una tale legge avrebbe effetti intermedi tra l'uninominale maggioritario e il proporzionale. Ma noi non ci accontentiamo delle apparenze: gli effetti di un sistema elettorale vanno valutati con un approccio scientifico.

A questo scopo, facciamo una simulazione prendendo i risultati delle elezioni del Senato del 1994 in Basilicata. Si tratta di dati che rispecchiano una situazione sostanzialmente tripolare, e quindi confrontabili con l'attuale assetto politico italiano. Nel 1994, in Basilicata, i Progressisti (la sinistra) ottennero il 36% dei voti, il Polo del Buon Governo (la destra) arrivò poco sotto il 30%, mentre il Patto per l'Italia (centro) si fermò al 24%. Il voto uninominale, però, fu prevalentemente in favore della sinistra, che si aggiudicò 4 seggi su 5; il seggio uninominale rimanente andò alla destra.

Il recupero proporzionale del 25%, pari in Basilicata a due seggi, fu diviso equamente tra destra e centro, per mezzo di una tecnica propria del Mattarellum denominata scorporo che mira a "indennizzare" i partiti penalizzati dal maggioritario. Il risultato finale fu quindi di 4 seggi per la sinistra (57% del totale), 2 per la destra (29%) e 1 per il centro (14%). Dunque il Mattarellum del 1994 aveva effetti maggioritari, seppur temperati dallo scorporo.

Ma cosa sarebbe successo se lo scorporo proporzionale fosse stato di 5 seggi, come nel caso di un Mattarellum annacquato al 50-50? L'ipotesi è esemplificata dalla seguente tabella.


Con il 24% dei voti, il centro, pur non avendo vinto nessun seggio uninominale, avrebbe lucrato il 60% dei seggi proporzionali, e ottenuto quindi un 3 seggi su 10, pari al 30%.

Un risultato ai limiti del paradossale. La ripartizione finale dei seggi è identica a quella che si sarebbe ottenuta con un proporzionale puro utilizzando il metodo d'Hondt, nonostante il 50% dei seggi sia stato assegnato con l'uninominale.

La domanda sorge spontanea: a chi serve una legge nominalmente ibrida, ma di fatto integralmente proporzionale? Naturalmente, a chi ha interesse a tirare a campare confondendo le acque. Questa proposta di sistema elettorale pseudo-maggioritario è un esempio di quella politica opaca di cui faremmo volentieri a meno, che nasconde le proprie reali intenzioni dietro i tecnicismi di una legge che i cittadini italiani non conoscono nel dettaglio.


(In una versione precedente della grafica, circolata su Twitter, al Polo del Buon Governo erano stati erroneamente attribuiti 3 seggi proporzionali invece di 2, pur mantenendo i totali corretti.)

venerdì 13 gennaio 2017

Ma che diavolo sarebbe il "referendum informale"?

Poteva dire "referendum di indirizzo". Poteva dire "referendum consultivo". E invece no: Gustavo Zagrebelsky, commentando la ben nota richiesta di referendum sull'euro avanzata da alcuni partiti, in particolare il Movimento 5 Stelle, si è inventato una categoria ancora inedita.

D. I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.

R. La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile.

Inventare nuove categorie giuridiche: c'è chi può e chi non può, e un principe ucraino ex presidente della Corte Costituzionale, evidentemente, può. Avrebbe potuto anche degnarsi di spiegare che cosa sia mai un tale "referendum informale": dato che non l'ha fatto, mi assumo l'ingrato compito nei limiti delle mie minuscole capacità.

I referendum consultivi e di indirizzo, cioè quelli che pongono un quesito all'elettorato senza prevedere alcun obbligo di attuazione dell'opinione risultata maggioritaria, sono di per sé una forma di consultazione molto criticata. Qualora sia possibile farne richiesta direttamente da parte dei cittadini, il referendum consultivo, pur non vincolante, può essere un dignitoso strumento di pressione politica; ma se esso è richiesto dalle istituzioni investite del potere di prendere decisioni, interpellare i cittadini riservandosi il diritto di ignorarne le opinioni è un inutile bizantinismo.

Comunque, in Italia un referendum di indirizzo c'è stato: quello del 1989 sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo, che peraltro non ha prodotto alcun effetto nonostante il risultato bulgaro sia in termini di affluenza sia nella prevalenza del Sì. Ma questo referendum è stato indetto non da una legge ordinaria, ma da una legge costituzionale ad hoc. Non si poteva fare altrimenti: il popolo italiano esercita la propria sovranità nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione (art. 1!), e la Costituzione quel tipo di referendum non lo prevede.

Dunque, per tenere un referendum consultivo bisognerebbe per prima cosa modificare la Costituzione; per cui, a meno che in Parlamento non si coaguli una maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere (il che pare alquanto improbabile), prima del referendum consultivo bisognerebbe tenerne uno confermativo sulla legge costituzionale che lo istituisce.

Conscio dell'irragionevolezza di un tale procedimento, Zagrebelsky propone un'acrobatica piroetta che avrebbe fatto impallidire Nureyev (saranno parenti?): se l'opinione dei cittadini italiani può chiederla Piepoli, potrà ben chiederla anche lo Stato. È sufficiente che questa consultazione non sia affatto una modalita di espressione della sovranità popolare, neanche in termini consultivi; ecco dunque spiegato il "referendum informale": una votazione che in termini pratici è del tutto identica a un referendum, ma che è priva della dignità istituzionale del referendum. Formalmente non potrebbe mai chiamarsi referendum e dovrebbe essere considerata nient'altro che un sondaggio d'opinione a tappeto eseguito direttamente dallo Stato, e se così fosse non soltanto non occorrerebbe una legge costituzionale per indirla, ma probabilmente non servirebbe neanche una legge ordinaria: basterebbe un provvedimento amministrativo come un decreto del Ministero dell'Interno.

L'ipotesi zagrebelskiana, dunque, si fonda su un'interpretazione puramente formalista: lo Stato può indire un referendum anche senza legge costituzionale, a condizione di non riconoscerlo formalmente come tale.

Sarà. Io rimango convinto che ciò che cammina come una papera e starnazza come una papera, probabilmente è una papera: e allora il "referendum informale" non è nient'altro che il tentativo di eludere la Costituzione, proposto da un autoproclamato difensore della Costituzione. Che pena.