mercoledì 25 ottobre 2017

Italicum: tirando le somme

Quarta e ultima puntata della nostra discussione sulla sentenza di incostituzionalità Italicum. Link diretti alle puntate precedenti
1. Sintesi della sentenza
2. Analisi generale
3. Ballottaggio nell'Italicum e nei comuni


Nel precedente articolo sulla sentenza Italicum, abbiamo cercato di approfondire l'assunto impossibile della Corte Costituzionale: eliminare il ballottaggio dell'italicum in quanto incostituzionale, mantenendo valido quello dei sindaci in quanto costituzionalmente legittimo. Ripugna alla logica che quella disproporzionalità che nell'Italicum, assegnando il controllo di un organo alla maggior minoranza, viene giudicata illegittima, venga invece giustificata quando gli organi assegnati alla maggior minoranza sono ben due: sindaco e consiglio comunale.
La Corte Costituzionale ha in passato confermato la legittimità della legge elettorale comunale, ma la prossima volta che il sindaco di una grande città sarà eletto avendo totalizzato, al primo turno, soltanto il 20% dei consensi, gli esclusi dal ballottaggio potranno fare ricorso basandosi sulla nuova giurisprudenza relativa all'Italicum. I giudici dovranno allora prodursi in nuove acrobazie per evitare di scassare ciò che funziona da 25 anni.

La "logica prevalente" proporzionale

Concludiamo la nostra critica puntualizzando alcuni ulteriori elementi discutibili. Uno di questi è la "logica prevalente" della legge elettorale: già nella sentenza 1/2014 (contro il Porcellum), la Corte aveva sostenuto che

qualora il legislatore adotti il sistema proporzionale, anche solo in modo parziale, esso genera nell’elettore la legittima aspettativa che non si determini uno squilibrio sugli effetti del voto, e cioè una diseguale valutazione del “peso” del voto “in uscita” [...]

Si tratta a ben vedere di un'affermazione che sconfina quasi nella sprezzante sottovalutazione dell'elettore, capace di vedere soltanto proporzionale o maggioritario, e non le diverse gradazioni di questi due principî che sono possibili. Chiunque sia in grado di capire che il caffelatte può avere più o meno caffè per aiutare a svegliarsi, e più o meno latte per attenuare l'amaro del caffè, sa anche cosa aspettarsi da una legge che contenga elementi di proporzionale ed elementi di maggioritario.

Al tempo stesso, la Corte si attribuisce una sostanziale arbitrarietà nel definire quale sia la logica prevalente: chi può dire che la ripartizione proporzionale del 45% dei seggi costituisca un elemento prevalente sulla formula majority assuring. Chi può dire, parafrasando la Corte, che il ballottaggio non generi nell'elettore la "legittima aspettativa" che il vincitore ottenga una maggioranza dei seggi?

È dunque evidente che questo ragionamento dei giudici, ancorché non illogico, contiene elementi fortemente opinabili.

Rappresentatività e governabilità

Lascia invece senza parole che la Corte insista con l'annoso dualismo tra rappresentatività e governabilità: una dicotomia accademica che vive ormai di vita propria, avendo interrotto ogni rapporto con il sentire comune. Sarebbe utile, per i giudici, fare una passeggiata fuori dal Palazzo della Consulta, e incontrare al parco oppure al bar qualche elettore di quelli che si lamentano del quarto governo non eletto consecutivo, imbeccati da giornalisti televisivi esperti nel frullare gli umori popolari. E dovrebbero fare, a quegli elettori, una domanda semplice: quanto è rappresentativo un sistema elettorale che, nella quasi totalità dei casi, affida il governo a una contrattazione tra partiti, invece che alla scelta dei cittadini?

"Poco o niente", sarebbe la risposta. E forse, allora, i giudici ci penserebbero due volte prima di argomentare che la governabilità è subordinata alla rappresentatività: nel sentire comune, la governabilità è invece un elemento di rappresentatività.


La forma di governo

Un ultimo elemento di critica è collegato ancora una volta alla goffa difesa del premio di maggioranza comunale, basata sulla diversa forma di governo. I progetti di riforma della bicamerale D'Alema e del governo Berlusconi sono stati segnati da una forte opposizione dovuta al fatto che quelle proposte intaccavano la forma parlamentare, modificandola in qualcos'altro (semipresidenzialismo oppure premierato forte): i maggiori oppositori di quei progetti (in molti casi gli stessi che si opposero alla riforma costituzionale fallita del 2016) sostenevano che il problema della governabilità andasse affrontato soltanto dal punto di vista della normativa elettorale, e non da quello della forma di governo.

Addirittura si disse (l'infelice iperbole si deve, purtroppo, al compianto Leopoldo Elia) che il progetto del governo Berlusconi configurava un "premierato assoluto". Se prendiamo seriamente il ragionamento della Consulta (io, come ho già detto, ritengo che ciò non sia possibile; ma altri potrebbero pensarla diversamente), abbiamo un forte argomento in favore della modifica della forma di governo in modo coerente con la proposta del cosiddetto "premierato assoluto".

È dunque inevitabile che i prossimi progetti di riforma -- ce ne saranno ancora altri, senza dubbio -- saranno più ambiziosi di quello minimale che è stato bocciato lo scorso anno. I gladiatori del No sono avvisati...


Non è tutta colpa della Corte Costituzionale

Benché la sentenza sull'Italicum sia problematica per le ragioni fin qui esposte, non tutto quello che ne è conseguito è responsabilità dei giudici.

Non è vero, per esempio, che la Consulta abbia chiuso la porta a ogni legge elettorale majority assuring. Il ballottaggio dell'Italicum avrebbe tranquillamente potuto essere salvato, con tanto di premio di maggioranza al 54%, se il parlamento si fosse messo d'accordo per rendere possibili gli apparentamenti tra liste, in qualche forma che tenga conto dei rilievi della Corte, al secondo turno. Sarebbe stata una strada stretta, ma la maggioranza che ha approvato l'Italicum, in teoria, avrebbe dovuto essere in grado di fare questa modifica.

Invece ciò non è stato possibile per due ragioni: la prima è che la bocciatura della riforma del bicameralismo al referendum dello scorso dicembre, confermando il Senato elettivo e paritario, esclude l'utilizzo di premi di maggioranza con ballottaggio. Il rischio che i due ballottaggi simultanei per Camera e Senato diano risultati diversi (dato che diverso è il corpo elettorale: al Senato i minori di 25 anni non votano) sarebbe troppo elevato.

Inoltre il risultato del referendum ha reso francamente improponibile la riproposizione di un sistema elettorale pensato insieme a quella riforma costituzionale bocciata dagli italiani.

Infine, una legge elettorale giudicata incostituzionale diventa marchiata per sempre come "porcata", ma questo dipende da un pensiero demagogico che non è stato promosso dalla Corte Costituzionale. Troppo difficile spiegare che un sistema elettorale è un oggetto complesso in cui occorre contemperare numerose esigenze di rilievo costituzionale, e che il campo di azione della Consulta si è esteso (oltretutto con una giurisprudenza ondivaga) a tal punto che l'unico modo per essere certi della costituzionalità di un sistema è approvarlo e incrociare le dita in attesa di un ricorso che non tarderà ad arrivare.

Concludo così questa serie sull'Italicum, proprio mentre si approva una nuova legge elettorale, molto meno ispirata di quella precedente, ma che probabilmente reggerà allo scrutinio di costituzionalità proprio perché le mancano quei correttivi maggioritari che una buona legge elettorale italiana dovrebbe avere. Dovremo sperimentare i limiti di questo sistema che gli italiani hanno voluto senza volerlo, per capire quanto fosse buono quello giudicato incostituzionale. Addio Italicum, legge che avrebbe potuto essere buona, ma alla fine non fu!

< 3. Il premio nell'Italicum e nei comuni < (fine)

domenica 1 ottobre 2017

Due parole sulla Catalogna

In una democrazia liberale dovrebbe essere possibile, seguendo la giusta procedura, aggravata fin quanto è necessario, discutere e prendere qualunque tipo di decisione che non metta in pericolo la democrazia liberale stessa.
Invece, oggi, le questioni che riguardano l'unità dello stato e la variazione dei confini, nella maggior parte dei paesi (la Spagna, come abbiamo scoperto, ma notoriamente anche l'Italia) non possono neanche legittimamente essere poste.
Non si possono variare i confini (se non in maniera del tutto eccezionale) perché la pace di cui ha goduto la maggior parte dell'Europa dalla fine della seconda guerra mondiale deriva in buona parte dal fatto che i confini degli stati sono diventati cristallizzati e indiscutibili.
Si tratta senz'altro di un'ottima ragione, ma non abbastanza da autorizzare un governo che si trovi a confrontarsi con una regione fortemente autonomista prima, e separatista poi, a ignorare il problema, mostrarsi completamente sordo alle richieste della popolazione, e alla fine raddrizzarli a bastonate.
Non è una buona ragione perché si tratta di un comportamento moralmente incompatibile con quei principi della democrazia liberale che dovremmo considerare supremi, forse anche più della costituzione stessa. Ma soprattutto non è una buona ragione perché è straordinariamente inefficace.
Pensateci bene: questo scontro tra Madrid e Barcellona è nato attorno a una questione di tasse: roba che con l'identità nazionale non c'entra nulla. 10 anni fa, sotto Zapatero, c'era un 15% di separatisti in Catalogna: robetta. Poi è arrivato Rajoy, che ha ignorato per anni il malumore catalano (non ve la faccio lunga, ma c'è di mezzo una sentenza di incostituzionalità) e alla fine gli ha mandato la guardia civile (carabinieri) a bastonarli.
Ecco, pensate a questo e ditemi: secondo voi i catalani, dopo le bastonate, si sentono più spagnoli o meno?

giovedì 29 giugno 2017

Sentenza Italicum: l'eccezione dei comuni

Terza puntata della nostra discussione sulla sentenza di incostituzionalità Italicum. Link diretti alle puntate precedenti
1. Sintesi della sentenza
2. Analisi generale


La decisione della Consulta sull'incostituzionalità del ballottaggio previsto dall'Italicum non si applica alla legge elettorale dei comuni. La Corte spiega questa disparità di trattamento come segue:

"È pur vero che nel sistema elettorale comunale l'elezione di una carica monocratica, qual è il sindaco, alla quale il ballottaggio è primariamente funzionale, influisce in parte anche sulla composizione dell'organo rappresentativo. Ma ciò che più conta è che quel sistema si colloca all'interno di un assetto istituzionale caratterizzato dall'elezione diretta del titolare del potere esecutivo locale, quindi ben diverso dalla forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione a livello nazionale."

Qual è la forma di governo dei comuni?

Le forme di governo universalmente riconosciute come tali sono soltanto due: quella parlamentare, in cui esecutivo e legislativo sono legati dal circuito fiduciario, e quella presidenziale, in cui il circuito fiduciario è del tutto assente. Gli Stati Uniti sono una repubblica presidenziale, e per questo motivo Obama ha governato per diversi anni nonostante il Congresso avesse una maggioranza repubblicana. La forma di governo parlamentare è propria di molti paesi europei, come l'Italia o la Germania, in cui il parlamento può licenziare il governo in qualunque momento.

Più incerta è la classificazione dei paesi come la Francia, in cui il governo è legato al parlamento da un vincolo di fiducia (o, almeno, di non sfiducia), pur essendo diretto da un presidente che non può essere sfiduciato. Vista la presenza del circuito fiduciario, è stata spesso definita "forma di governo parlamentare a tendenza presidenziale"; oggi però, si parla comunemente di sistema semi-presidenziale.

E i comuni? Il parlamentino dei comuni, il consiglio comunale, può sempre sfiduciare e licenziare sia l'esecutivo sia il suo capo (la giunta comunale e il sindaco), per cui la forma di governo è parlamentare. Una caratteristica dei comuni, però, è quella di prevedere che qualora il sindaco decada, debba essere rieletto anche il consiglio. Una parte della dottrina -- quasi esclusivamente italiana, peraltro -- ritiene che questo principio (detto simul stabunt, simul cadent) determini una forma di governo diversa, variamente denominata (semi-parlamentare, primo-ministeriale, o anche premierato forte). Evidentemente, la Corte Costituzionale italiana ha fatto propria questa classificazione che, però, non è affatto unanime.

(Nota: nella sentenza si legge che la forma di governo dei comuni non è parlamentare perché il sindaco è eletto direttamente. È uno strafalcione: la forma di governo riguarda principalmente i rapporti fra i diversi poteri dello stato, e non il modo in cui sono eletti. Secondo la Costituzione degli USA, il Presidente non è eletto direttamente dai cittadini, ma dal Collegio Elettorale o, addirittura, in alcuni rarissimi casi, dalla Camera dei Rappresentanti; ma nessuno dubita che gli USA siano una repubblica presidenziale. Viceversa, il presidente dell'Irlanda è eletto direttamente dai cittadini, pur in una repubblica parlamentare).

La differenza tra stato e comuni

La differenza tra stato e comuni è dunque la seguente: in entrambi i casi, l'organo assembleare può licenziare l'esecutivo, ma quando ciò accade le conseguenze sono ben diverse. Nel caso dei comuni, la sfiducia non comporta solo le dimissioni del sindaco, ma anche lo scioglimento del consiglio comunale; a livello nazionale, invece, il Parlamento che ha sfiduciato il governo di norma rimane in carica, può dare la fiducia a un altro governo, e viene sciolto soltanto se ogni tentativo dovesse fallire.

In parole ancora più semplici, il sindaco e il consiglio comunale hanno un rapporto paritario e formano un tutt'uno indissolubile: o vivono insieme, o muoiono insieme; il governo nazionale, invece, si confronta con il parlamento in posizione del tutto subordinata.

Sentenza Italicum e comuni

Secondo la Corte Costituzionale, il ballottaggio dell'Italicum consegna il controllo di un organo assembleare a una forza politica potenzialmente poco rappresentativa, con una disproporzionalità talmente grande da essere contraria alla Costituzione.

Ma allora secondo quale logica il ballottaggio dei comuni può essere considerato conforme alla Costituzione? Non si può certo sostenere insieme  che dare a una forza politica la maggioranza di un solo organo sia incostituzionale, mentre è perfettamente legittimo consegnare alla stessa forza politica, con un solo voto, il controllo di ben due istituzioni, tra l'altro con una disproporzionalità anche maggiore di quella dell'Italicum (il premio di maggioranza dei consigli comunali è pari al 60%)

Ben lungi dal giustificare la disproporzionalità, la diversa forma di governo dei comuni ne rende gli effetti ancora più gravi.

Come interpretare, allora, il ragionamento della Corte?

La prima possibilità è accettare che la Corte, nelle proprie sentenze, è dispensata dal mantenere una qualunque coerenza logica interna. Il ballottaggio dell'Italicum è incostituzionale, mentre quello dei comuni è costituzionale, perché così è stato deciso, e non è necessario argomentare ulteriormente. Le motivazioni della sentenza sono soltanto un accessorio.

Oppure, le conclusioni che la Corte ha tratto per l'Italicum sono valide anche per i comuni, e il passaggio della sentenza che evidenzia la differenza tra le due forme di governo significa soltanto che per la legge elettorale dei comuni non ci sono conseguenze immediate; nulla impedisce però di ricorrere in giudizio contro la legge elettorale dei comuni, utilizzando i nuovi principi delineati dalla sentenza Italicum. E dunque anche in quel caso dovrà essere pronunciata una sentenza di incostituzionalità, perché l'elezione simultanea e collegata del consiglio comunale e del sindaco rafforza le criticità del premio di maggioranza e del ballottaggio.

In entrambi i casi, pare che i giudici non abbiano ben considerato, o che abbiano sottovalutato le conseguenze delle proprie azioni. Del resto sono esseri umani anche loro: purtroppo, nel nostro ordinamento, gli errori della Corte Costituzionale sono molto difficili da correggere.

< 2. Analisi della sentenza < > 4. Tirando le somme >

lunedì 26 giugno 2017

Oltre Renzi

Interrompo il mio commento a puntate della sentenza di incostituzionalità dell'Italicum per occuparmi brevemente dell'attualità politica. Dopo un'istruttoria durata anni, si è ufficialmente aperto il processo a Renzi. Organi di informazione e reti sociali ospitano per la maggior parte esponenti dell'accusa, ma anche gli avvocati della difesa non sono pochi. Con tutto quello che ci sarebbe da cambiare in Italia, passiamo il tempo a chiederci se sia il caso di cambiare Renzi; ma c'è poco da sorprendersi: non è certo la prima volta che la politica italiana, dal capo del governo all'ultimo elettore, si guarda l'ombelico.

E noi riformisti, dove siamo? È naturale che alcuni di noi siano scontenti di alcuni aspetti della parabola politica di Renzi e che in altri prevalga la riconoscenza per ciò che ha fatto; ciononostante, un riformista adulto ha il dovere di non prestarsi a questo teatrino.

Renzi sta commettendo troppi errori?

I riformisti critici ritengono che se Renzi avesse preso decisioni diverse avrebbe potuto evitare le ultime sconfitte. È un classico argomento preso dal catalogo del "senno del poi". Se Renzi avesse preso decisioni diverse, chissà se ci sarebbero mai stati la riduzione dell'Irpef o il Jobs act; il referendum costituzionale non lo avrebbe perso perché forse non ci sarebbe mai stata una riforma. Infatti, a pensarci bene, se Renzi avesse preso decisioni diverse è probabile che non sarebbe mai diventato premier.

Da Tangentopoli a oggi ho visto tanti tentativi di riformismo; altri tentativi, precedenti, me li hanno raccontati. In ognuna di queste esperienze si sono fatti errori che la volta successiva si è cercato di evitare. Ecco dunque il problema del "senno del poi": anche ammesso che dica correttamente dove si è sbagliato, non ci spiega mai quale sarebbe stata la strada giusta.

Meglio dunque accettare che qualunque esperienza politica è costellata di errori, e valorizzare ciò che si riesce a raccogliere nonostante gli errori commessi: non poco, in questo caso.

Renzi è, ancora oggi l'unico che può cambiare l'Italia?

Ci sono ancora degli entusiasti di Renzi, che lo considerano l'unico ancora in grado di cambiare l'Italia.
Però, è molto probabile che si sbaglino. Renzi non può più cambiare l'Italia, esattamente come non possono riuscirci i suoi avversari. Infatti, persino un improbabile Macron italiano, cosa potrebbe mai fare in un sistema politico-istituzionale liquefatto come il nostro? In Francia un leader politico può formare intorno a sé un partito nel giro di pochi mesi, ottenere un discreto 24% al primo turno delle elezioni presidenziali, e trasformarlo in un'ampia maggioranza monocolore nel giro di un mese e mezzo. In Italia, per ottenere lo stesso risultato, sarebbe necessario raccogliere come minimo il 45% dei voti nell'unico turno di elezioni politiche, sia alla Camera sia al Senato, il che è impensabile per un outsider, ma proibitivo anche per partiti radicati.

Siamo seri: è un miracolo che non può compiere nessuno, e neanche Renzi che oggi, a differenza che nel 2014, è zavorrato da un dissenso sulla sua persona che non cesserà, qualunque cosa accada.

Abbiamo bisogno di Renzi? Abbiamo bisogno del Pd?

Mettiamoci l'anima in pace: il proporzionale in Italia resterà ancora a lungo.
E con il proporzionale, sprecare le proprie forze litigando su chi debba essere il leader non ha senso.
Io sono ancora più radicale e sono convinto che arrivati a questo punto, sia il Pd stesso, per come è stato pensato, a non avere più senso. Il Pd è un partito pensato per elezioni in cui la competizione è tra alternative di governo: l'unica cosa certa delle prossime elezioni, invece, è che nessuno potrà governare senza dover mediare con un'ampia coalizione di partiti che hanno fatto ai propri elettori promesse anche molto diverse fra loro.

Ci vuole un po' di cinismo, ma la lezione che dobbiamo trarre è che, in vista delle prossime elezioni politiche, il Pd non è il miglior veicolo possibile per le idee riformiste. E Renzi, che è stato il migliore interprete delle nostre idee nell'ultima fase della cosiddetta seconda repubblica, non potrà avere lo stesso ruolo nella prossima legislatura.

È molto probabile che la cosa migliore, per il partito del Sì, sia collocarsi nella sua posizione naturale, al centro della scena politica, che è anche il luogo in cui le sue idee possono essere più efficaci.
Il proporzionale, per l'Italia, è una tragedia, ma noi abbiamo la possibilità di trasformarlo in opportunità.

Per farlo, però, dobbiamo emanciparci da Renzi, dal Pd, e unirci a quegli italiani che hanno votato Sì al referendum costituzionale pur provenendo da esperienze politiche diverse. Oltre Renzi e oltre il Pd per salvare ciò che di buono abbiamo costruito in questi anni.

Ci sarà qualcuno in grado di prendere questa difficile decisione, e cambiare il nostro futuro politico? O dovremo rassegnarci a vedere le prossime elezioni trasformate in un noioso e inutilissimo verdetto popolare su Renzi?

venerdì 23 giugno 2017

Italicum: analisi di una sentenza

Dopo la necessaria sintesi delle motivazioni della sentenza Italicum, che trovate nel mio post di ieri, veniamo dunque alla loro analisi critica.

I tre elementi di incostituzionalità.

Si legge nella sentenza che il turno di ballottaggio dell'Italicum è incostituzionale per la presenza contemporanea di tre elementi: l'assenza di una soglia per l'accesso (eccetto la soglia di sbarramento del 3%, evidentemente inadeguata), la designazione del vincitore sulla base della maggioranza dei voti espressi (e non degli elettori iscritti), e il divieto di collegamenti o apparentamenti tra liste dopo il primo turno.

Abbiamo già notato come sia impossibile designare un vincitore sulla base di una quota degli aventi diritto al voto e, contemporaneamente, mantenere il carattere majority-assuring del sistema elettorale: gli esclusi dal ballottaggio farebbero campagna per l'astensione attiva con l'unico scopo di far saltare il premio di maggioranza; del resto, si fa così ai referendum abrogativi, dove il quorum è calcolato sulla maggioranza degli elettori: far dipendere l'esito non di un referendum, ma delle elezioni politiche, da una campagna astensionistica sarebbe un'assurdità su cui non vale la pena neanche spendere tempo.

Sarebbe invece possibile stabilire l'accesso al turno di ballottaggio non delle due liste più votate al primo turno, ma di tutte quelle liste che superino una certa soglia, per esempio il 25%, il che consentirebbe dei ballottaggi a tre. A questo punto, però, bisognerebbe stabilire che cosa accadrebbe qualora nessuna lista superi la soglia (evento non improbabile: il presidente francese Macron, al primo turno, si è fermato al 24%, e tutti gli altri hanno avuto meno; oggi governa con la maggioranza assoluta). Evidentemente non si potrebbero mandare comunque al secondo turno le due liste più votate, perché ciò costituirebbe ancora un ballottaggio senza soglia.

Pertanto anche questo elemento di incostituzionalità non potrebbe essere eliminato senza rinunciare al carattere majority-assuring della legge elettorale. Rimane dunque da considerare soltanto la questione degli apparentamenti.

Dice la Corte che in assenza di apparentamenti "il turno di ballottaggio non è costruito come una nuova votazione rispetto a quella svoltasi al primo turno, ma come la sua prosecuzione". Se il ballottaggio è un proseguimento del primo turno, ragionano i giudici, per vincere il ballottaggio non può bastare la maggioranza dei votanti del secondo turno, ma bisogna anche avere una certa legittimazione sulla base dei votanti del primo turno o degli elettori totali.

Il mio punto di vista è differente. L'Italicum era congegnato in maniera tale da richiedere, per il vincere il ballottaggio, il superamento di due barriere: non solo il 50%+1 al secondo turno, ma anche un numero di voti sufficiente a classificarsi almeno secondi nel primo turno di votazione. Il fatto che questa seconda soglia sia mobile, non numericamente predeterminata, non autorizza a dire che sia di per sé inesistente o che consenta a partiti privi di qualunque base elettorale di ottenere il premio di maggioranza. Soltanto enfatizzando casi limite si può sostenere il contrario; ma se si enunciano principî giuridici basandosi sui casi limite, si giunge inevitabilmente al paradosso: persino le soglie di sbarramento, in presenza di una frammentazione smisurata, potrebbero consegnare la maggioranza assoluta dei seggi a chi abbia conseguito una piccola minoranza di voti; ciononostante, nessuno può seriamente ritenere che siano incostituzionali.

Dire che la soglia per l'accesso al ballottaggio deve essere fissata una volta per tutte dalla legge e non dipendere dal comportamento dei cittadini al voto è un'assunzione arbitraria: si sarebbe potuto dire che in presenza di un incentivo all'aggregazione (il premio di maggioranza) e di disincentivi alla disgregazione (la soglia di sbarramento), le due liste più votate del primo turno necessariamente superano una soglia implicita che ne garantisce la base elettorale, e che ciò dimostra la proporzionalità e ragionevolezza del premio.

Il ragionamento della Corte è dunque viziato da un a priori che trovo non condivisibile; d'altra parte, adottare un principio del genere, indipendentemente dal fatto che sia inadeguato, rientra senz'altro nella discrezionalità della Consulta. Il problema, caso mai, sono le conseguenze.

La questione degli apparentamenti.

Se stabiliamo che per assegnare un premio di maggioranza a chi abbia conseguito il 50%+1 dei voti del secondo turno occorre che il secondo turno sia congegnato come una votazione del tutto separata, occorre capire che cosa si intende per "votazione del tutto separata".

Nella sentenza Italicum si parla di apparentamenti o collegamenti fra liste. Va bene, ma con quale meccanismo? Qualunque forma di apparentamento è idonea allo scopo?
Prendiamo ad esempio il meccanismo utilizzato per i consigli comunali delle maggiori città: le due forze politiche che hanno conseguito il maggior numero di voti, e quindi accedono al ballottaggio, hanno la facoltà di "allargarsi" collegandosi ad altre forze politiche che sono state escluse; il premio di maggioranza verrà dunque condiviso tra tutte le liste collegate, anche al secondo turno.

Nei comuni, dunque, l'apparentamento dipende dal buon cuore di chi si è già qualificato al ballottaggio; ed è bene ricordare che, come nell'Italicum, l'accesso al ballottaggio non richiede il superamento di una soglia numericamente predeterminata. Anche in questo caso, dunque, il secondo turno è una mera prosecuzione del primo.

Diverso sarebbe il caso in cui accedano al ballottaggio le prime due forze politiche del primo turno (qualunque percentuale di voti abbiano conseguito) e, inoltre, tutte le forze politiche che abbiano superato, poniamo, il 25% dei voti, anche mediante apparentamenti successivi al primo turno. Immaginiamo cioè che al primo turno si siano presentate le seguenti forze politiche:

A30%
B18%
C17%
D16%
E9%
F6%
G4%

In questo caso il secondo turno sarebbe autenticamente separato, perché una coalizione di C ed E, assommando più del 25% dei voti del primo turno, potrebbe accedere al ballottaggio anche senza collegarsi ad A o B.

La legge elettorale dei comuni è a rischio?

In teoria no, perché la Consulta, rendendosi conto delle implicazioni della sentenza che stava scrivendo, l'ha blindata.
Secondo i giudici costituzionali, dato che la forma di governo dei comuni non è di tipo parlamentare, al loro organo di rappresentanza assembleare non si applicano gli stessi principî che hanno ispirato la sentenza Italicum.

Questo passaggio della sentenza è goffamente difensivo. Non basta dire che la forma di governo dei comuni è diversa (sempre che lo sia): bisogna anche spiegare quali sono le differenze e per quali ragioni queste differenze impediscono di giungere alle stesse conclusioni che la Corte ha tratto nei confronti dell'Italicum. Ne discuteremo nella prossima puntata.

< 1. Motivazioni della sentenza < > 3. L'eccezione dei comuni >

giovedì 22 giugno 2017

Italicum: le motivazioni della sentenza

Sono molto critico nei confronti della sentenza n. 35/2017, con cui la Corte Costituzionale ha eliminato il ballottaggio dell'Italicum. Nei prossimi giorni, cercherò di spiegare gli enormi punti deboli di questa sentenza. Non mi sfugge che il compito dei giudici, in questo caso, era particolarmente difficile; il risultato, comunque, è molto scadente sotto il profilo della coerenza logica, perché i giudici si erano prefissi l'obiettivo impossibile di intervenire sull'Italicum senza che ciò avesse conseguenze per altre leggi vigenti, o per la legittimità di altri sistemi elettorali applicati in paesi diversi dal nostro, e che in futuro si potrebbe volere applicare anche in Italia.

In questo primo articolo, trovate una sintesi delle motivazioni dell'incostituzionalità del turno di ballottaggio previsto dall'Italicum. I lettori più curiosi potranno approfondire leggendo la sentenza al punto 9 del Considerato in diritto.

Che cosa ha stabilito la Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha stabilito che il premio di maggioranza assegnato mediante ballottaggio come previsto dalla legge elettorale "Italicum" per l'elezione della Camera dei Deputati è costituzionalmente illegittimo in quanto:
  1. potrebbe accedere al ballottaggio anche una lista che abbia ricevuto soltanto il 3% dei voti validi
  2. il vincitore è determinato sulla base dei voti espressi e non degli aventi diritto
  3. tra il primo e il secondo turno non sono consentiti apparentamenti tra liste, pertanto il ballottaggio non è una seconda votazione, ma una prosecuzione della prima
Questi tre fattori insieme non hanno superato lo scrutinio di proporzionalità e ragionevolezza della Corte.

In altre parole, sembra che l'incostituzionalità derivi dalla presenza contemporanea di queste caratteristiche, ma una legge elettorale majority-assuring potrebbe comunque essere ammissibile, posto che si preveda una soglia di accesso più congrua oppure la possibilità degli apparentamenti (mentre se il vincitore del ballottaggio fosse determinato sulla base di una percentuale degli elettori iscritti, si introdurrebbe per forza di cose la possibilità che nessuna forza politica vinca).

Il premio di maggioranza e la "logica prevalente" proporzionale

La Corte aveva già stabilito, nella sentenza 1/2014 (che ha bocciato il "porcellum", o legge Calderoli), che una disproporzionalità non limitata da opportune soglie di accesso è incostituzionale.
La nuova sentenza estende la precedente in quanto la disproporzionalità deve essere valutata relativamente ai voti ricevuti al primo turno.

Ma ribadisce anche che il limite alla disproporzionalità non è assoluto. Una disproporzionalità ampia, potenzialmente illimitata, è consentita nei sistemi elettorali di tipo uninominale maggioritario.
La "logica prevalente" dell'Italicum, invece, è proporzionale (secondo la Corte!), per cui una disproporzionalità più ridotta di quella possibile nei sistemi uninominali rimane incostituzionale.

La governabilità è meno importante

Va inoltre considerato che l'Italia è una repubblica parlamentare: pertanto ogni sistema elettorale deve essere prima di tutto finalizzato a garantire la rappresentatività, e solamente in subordine può favorire la governabilità.

Da quanto detto sopra, si deduce che la parola "rappresentatività" può significare due cose distinte:
  • la ripartizione delle quote di voto nazionali secondo un sistema di voto proporzionale
  • l'individuazione di un rappresentante territoriale collegio per collegio (secondo un sistema di voto uninominale maggioritario), anche senza riguardo per le quote di voto nazionali
Non è invece un elemento di rappresentatività (secondo la Corte!) l'individuazione popolare di una maggioranza di governo, mediante premio di maggioranza.

I comuni sono esentati

In ultimo, la Corte ha deciso di proteggere la legge elettorale dei comuni dagli effetti di questa sentenza. Dato che nei comuni c'è una forma di governo diversa, che prevede l'elezione diretta congiunta sia dell'organo assembleare sia di quello monocratico titolare dell'esecutivo locale, i limiti al premio di maggioranza qui descritti non si applicano.

> 2. Analisi della sentenza >

domenica 18 giugno 2017

Violante e l'anti-lezione del 4 dicembre

In un articolo di oggi per il Corriere, Luciano Violante afferma che l'Italia ha ancora bisogno di riforme, il che è senz'altro vero. Per non rompere il filo delle riforme, è opportuno che vincitori e vinti comprendano la lezione del 4 dicembre.

Sarà. Ma nel discorso di Violante più che una lezione per vincitori e vinti vedo soltanto una anti-lezione per i soli vinti. Con le parole rispettabili e moderate che gli sono proprie, Violante propone una controriforma mortale: ridurre il potere del governo mediante limiti ai decreti e alla questione di fiducia. Sulla qual cosa, dice, tutti i partiti sarebbero d'accordo.

Ecco un esempio di come, talvolta, si possa dire una menzogna sostanziale mediante parole soltanto formalmente vere.

E' infatti vero che i partiti si erano accordati sui limiti alla decretazione d'urgenza e ai maxi-emendamenti, ma l'accordo derivava dal fatto che, contemporaneamente, si rendeva più solido e disciplinato il Parlamento, eliminando il bicameralismo paritario e introducendo una legge elettorale molto legittimante per la maggioranza di governo.

Ed è qui che casca l'asino: se il Parlamento continua ad essere una palude, io non voglio introdurre maggiori limiti alla decretazione d'urgenza e alla questione di fiducia, che pure in astratto vorrei, perché in queste condizioni sono il male minore. E credo di non essere il solo.

Ecco perché lo spacchettamento delle riforme costituzionali non si poteva fare prima del 4 dicembre e continua ad essere inaccettabile. Se la lezione del 4 dicembre è la resa incondizionata dei riformisti, grazie, ma no grazie!

Accolgo comunque l'invito di Violante ad approvare qualche riforma piccola piccola ma efficace. Ne propongo una: rivediamo sì i regolamenti parlamentari, ma per stabilire che un deputato o senatore può aderire soltanto al gruppo parlamentare di elezione o a quello misto.

mercoledì 7 giugno 2017

Il divide et impera di Napolitano

Siccome stimo Napolitano, sono convinto che alla maggior parte delle cose che ha detto ieri non crede neanche lui.

Non credo che secondo lui le elezioni anticipate siano un colpo alla credibilità dell'Italia perché "in tutte le democrazie si vota a scadenza naturale". Domani, qui in Regno Unito, si vota con tre anni di anticipo sulla scadenza della legislatura, grazie a un accordo tra Conservatori e Laburisti criticabile quanto si vuole, ma che certamente non ha nuociuto alla credibilità del paese.

(Sono altre le cose che nuocciono alla credibilità del paese: per esempio i risultati dei referendum -- naturalmente mi riferisco a quello britannico sulla Brexit; i risultati dei referendum italiani sono sempre apprezzati da tutti data la nota lungimiranza dei nostri concittadini)

Non credo che possa essere sinceramente indignato per una "legge elettorale fatta da quattro leader per calcolo di convenienza". Tutte le leggi elettorali sono fatte per calcolo di convenienza, incluse il proporzionale classico del 1948, la legge truffa del 1953, il mattarellum del 1993, il porcellum del 2006 e l'italicum del 2015, Anzi, mi passate un'osservazione ardita? Sono stati fatti per convenienza, o con un occhio alla convenienza, anche i due consultella del 2013 e del 2017.

Le leggi elettorali non si dividono in leggi interessate e leggi disinteressate, perché nessun partito, tranne forse i radicali, ha mai voluto per puro altruismo una legge destinata a ucciderlo.
Le leggi elettorali si dividono in leggi con effetti maggioritari e leggi con effetti proporzionali: le prime aiutano ad individuare un vincitore che sarà poi incaricato di governare; le seconde costringono i partiti a trovare un accordo rappresentativo della maggioranza dei cittadini. Si dividono inoltre in leggi che contrastano la frammentazione e leggi che la facilitano. Il sistema para-tedesco all'esame del Parlamento è quindi una legge che limita la frammentazione e costringe ad accordi.

E veniamo dunque agli accordi. Non credo che Napolitano possa essere contro le larghe intese, la grande coalizione, il governissimo. Non lo credo perché gli unici due governi italiani di grande coalizione li ha assemblati lui, pezzo dopo pezzo, forzando la mano di partiti contrari ad accordarsi (cosa di cui non cesserò mai di ringraziarlo: non l'avesse fatto, l'Italia avrebbe dichiarato l'insolvenza). Non lo credo perché, quando si è capito che al ballottaggio dell'Italicum il M5S avrebbe anche potuto vincere, Napolitano è tornato ad auspicare un accordo di tutte le forze politiche non populiste. Napolitano adora le larghe intese.

Non credo che Napolitano sia contrario a una legge proporzionale perché convinto che sia possibile una legge maggioritaria. Questo è un pensiero che possono avere i 60 milioni di leader politici e ct della nazionale mancati. Napolitano no: Napolitano è troppo intelligente e troppo informato sugli equilibri politici per non sapere che un parlamento in cui la totalità dei partiti politici (tranne al massimo il Pd; forse!) sono avvantaggiati dal proporzionale non approverà mai (mai!) una legge maggioritaria.

E allora, come si spiegano le parole di Napolitano? In una maniera molto semplice: Napolitano, non diversamente da Bersani o Alfano, ritiene che lo sbarramento al 5% sia troppo elevato. Non vuole una legge maggioritaria: vuole una legge proporzionale meno selettiva.

Per quale ragione? Una legge con uno sbarramento al 3% renderebbe possibile una moltiplicazione delle liste. Non solo sinistra radicale e Alfano, ma anche un partito di Bersani e uno di Pisapia, e forse un partito dell'Ulivo alternativo al Pd renziano, guidato da Letta e benedetto da Prodi.
Con una tale proliferazione di partiti, uno per ogni gusto, si pensa forse di togliere ai cinque stelle il voto di chi li vede come la forza politica anti-Renzi e anti-Berlusconi. Alla fine avremmo sempre un governo di grande coalizione, ma composto da una decina di forze politiche invece che da due.

Pare che la legge elettorale para-tedesca con lo sbarramento al 5% sia in bilico, quindi può darsi che vedremo se questa strategia divide et impera di Napolitano sia efficace oppure, come temo, soltanto un gioco pericoloso.

venerdì 27 gennaio 2017

Mattarellum: il diavolo è nei dettagli

Si fa presto a dire Mattarellum. La legge elettorale in vigore tra il 1993 e il 2005 viene spesso evocata come esempio di legge ben scritta, da un parlamento illuminato che non intendeva favorire nessuno.

In questo blog non facciamo agiografia. Sappiamo che il Mattarellum fu scritto da partiti che tenevano molto all'autoconservazione (e fu per questo aspramente criticato dal movimento referendario che aveva vinto il referendum per l'uninominale del 1993), ma nonostante questo si rivelò una legge relativamente buona. Per questo, se il Parlamento volesse tornare a quel sistema elettorale, saremmo favorevoli.

Ma è questo ciò che il Parlamento vuole? Purtroppo, sembra che molti abbiano in mente un Mattarellum declinato in una versione annacquata: non più 75% uninominale e 25% proporzionale, ma 50%-50%. Questo, si dice, perché l'Italia non è più un sistema politico bipolare, e quindi la quota proporzionale dovrebbe essere maggiormente valorizzata.

In realtà, l'Italia non era bipolare neanche nel 1993, quando il Mattarellum fu approvato; veniva anzi descritta come divisa in tre: un nord a trazione leghista, un centro dominato dal Pds, e un sud democristiano. Il bipolarismo arrivò soltanto due anni più tardi, proprio grazie alla nuova legge.

Sarebbe dunque auspicabile maggiore onestà: chi vuole un Mattarellum fifty-fifty non è mosso da chissà quali ragioni tecniche, ma vuole soltanto far pesare un diverso equilibrio politico. Nel 1993, si usciva da un referendum che aveva introdotto il maggioritario; oggi, un referendum ha aperto la porta al proporzionale.

Quando si parla di Mattarellum fifty-fifty, è ovvio pensare che una tale legge avrebbe effetti intermedi tra l'uninominale maggioritario e il proporzionale. Ma noi non ci accontentiamo delle apparenze: gli effetti di un sistema elettorale vanno valutati con un approccio scientifico.

A questo scopo, facciamo una simulazione prendendo i risultati delle elezioni del Senato del 1994 in Basilicata. Si tratta di dati che rispecchiano una situazione sostanzialmente tripolare, e quindi confrontabili con l'attuale assetto politico italiano. Nel 1994, in Basilicata, i Progressisti (la sinistra) ottennero il 36% dei voti, il Polo del Buon Governo (la destra) arrivò poco sotto il 30%, mentre il Patto per l'Italia (centro) si fermò al 24%. Il voto uninominale, però, fu prevalentemente in favore della sinistra, che si aggiudicò 4 seggi su 5; il seggio uninominale rimanente andò alla destra.

Il recupero proporzionale del 25%, pari in Basilicata a due seggi, fu diviso equamente tra destra e centro, per mezzo di una tecnica propria del Mattarellum denominata scorporo che mira a "indennizzare" i partiti penalizzati dal maggioritario. Il risultato finale fu quindi di 4 seggi per la sinistra (57% del totale), 2 per la destra (29%) e 1 per il centro (14%). Dunque il Mattarellum del 1994 aveva effetti maggioritari, seppur temperati dallo scorporo.

Ma cosa sarebbe successo se lo scorporo proporzionale fosse stato di 5 seggi, come nel caso di un Mattarellum annacquato al 50-50? L'ipotesi è esemplificata dalla seguente tabella.


Con il 24% dei voti, il centro, pur non avendo vinto nessun seggio uninominale, avrebbe lucrato il 60% dei seggi proporzionali, e ottenuto quindi un 3 seggi su 10, pari al 30%.

Un risultato ai limiti del paradossale. La ripartizione finale dei seggi è identica a quella che si sarebbe ottenuta con un proporzionale puro utilizzando il metodo d'Hondt, nonostante il 50% dei seggi sia stato assegnato con l'uninominale.

La domanda sorge spontanea: a chi serve una legge nominalmente ibrida, ma di fatto integralmente proporzionale? Naturalmente, a chi ha interesse a tirare a campare confondendo le acque. Questa proposta di sistema elettorale pseudo-maggioritario è un esempio di quella politica opaca di cui faremmo volentieri a meno, che nasconde le proprie reali intenzioni dietro i tecnicismi di una legge che i cittadini italiani non conoscono nel dettaglio.


(In una versione precedente della grafica, circolata su Twitter, al Polo del Buon Governo erano stati erroneamente attribuiti 3 seggi proporzionali invece di 2, pur mantenendo i totali corretti.)

venerdì 13 gennaio 2017

Ma che diavolo sarebbe il "referendum informale"?

Poteva dire "referendum di indirizzo". Poteva dire "referendum consultivo". E invece no: Gustavo Zagrebelsky, commentando la ben nota richiesta di referendum sull'euro avanzata da alcuni partiti, in particolare il Movimento 5 Stelle, si è inventato una categoria ancora inedita.

D. I 5Stelle insistono per il referendum sull’euro.

R. La Costituzione non lo prevede. Ma un referendum informale per dare un’idea di massima degli orientamenti tra i cittadini, non vedo perché non sia possibile.

Inventare nuove categorie giuridiche: c'è chi può e chi non può, e un principe ucraino ex presidente della Corte Costituzionale, evidentemente, può. Avrebbe potuto anche degnarsi di spiegare che cosa sia mai un tale "referendum informale": dato che non l'ha fatto, mi assumo l'ingrato compito nei limiti delle mie minuscole capacità.

I referendum consultivi e di indirizzo, cioè quelli che pongono un quesito all'elettorato senza prevedere alcun obbligo di attuazione dell'opinione risultata maggioritaria, sono di per sé una forma di consultazione molto criticata. Qualora sia possibile farne richiesta direttamente da parte dei cittadini, il referendum consultivo, pur non vincolante, può essere un dignitoso strumento di pressione politica; ma se esso è richiesto dalle istituzioni investite del potere di prendere decisioni, interpellare i cittadini riservandosi il diritto di ignorarne le opinioni è un inutile bizantinismo.

Comunque, in Italia un referendum di indirizzo c'è stato: quello del 1989 sul conferimento di un mandato costituente al Parlamento europeo, che peraltro non ha prodotto alcun effetto nonostante il risultato bulgaro sia in termini di affluenza sia nella prevalenza del Sì. Ma questo referendum è stato indetto non da una legge ordinaria, ma da una legge costituzionale ad hoc. Non si poteva fare altrimenti: il popolo italiano esercita la propria sovranità nelle forme e nei limiti previsti dalla Costituzione (art. 1!), e la Costituzione quel tipo di referendum non lo prevede.

Dunque, per tenere un referendum consultivo bisognerebbe per prima cosa modificare la Costituzione; per cui, a meno che in Parlamento non si coaguli una maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere (il che pare alquanto improbabile), prima del referendum consultivo bisognerebbe tenerne uno confermativo sulla legge costituzionale che lo istituisce.

Conscio dell'irragionevolezza di un tale procedimento, Zagrebelsky propone un'acrobatica piroetta che avrebbe fatto impallidire Nureyev (saranno parenti?): se l'opinione dei cittadini italiani può chiederla Piepoli, potrà ben chiederla anche lo Stato. È sufficiente che questa consultazione non sia affatto una modalita di espressione della sovranità popolare, neanche in termini consultivi; ecco dunque spiegato il "referendum informale": una votazione che in termini pratici è del tutto identica a un referendum, ma che è priva della dignità istituzionale del referendum. Formalmente non potrebbe mai chiamarsi referendum e dovrebbe essere considerata nient'altro che un sondaggio d'opinione a tappeto eseguito direttamente dallo Stato, e se così fosse non soltanto non occorrerebbe una legge costituzionale per indirla, ma probabilmente non servirebbe neanche una legge ordinaria: basterebbe un provvedimento amministrativo come un decreto del Ministero dell'Interno.

L'ipotesi zagrebelskiana, dunque, si fonda su un'interpretazione puramente formalista: lo Stato può indire un referendum anche senza legge costituzionale, a condizione di non riconoscerlo formalmente come tale.

Sarà. Io rimango convinto che ciò che cammina come una papera e starnazza come una papera, probabilmente è una papera: e allora il "referendum informale" non è nient'altro che il tentativo di eludere la Costituzione, proposto da un autoproclamato difensore della Costituzione. Che pena.