lunedì 5 dicembre 2016

Le riforme senza bussola

Oggi mi corre l’obbligo di scrivere qualcosa sul risultato inappellabile del referendum – un 60 a 40 per il No, che significa una sconfitta su tutta la linea per noi che avevamo creduto nella riforma fin dall’inizio – ed è un compito difficile. Nel mio blog, per regola, non si è mai parlato di Renzi (l’unica menzione del nome del Presidente del Consiglio uscente è stata nella locuzione “riforma Renzi-Boschi”), e non ho ragione per tradire questa regola.

Di che altro parlare, dunque? La domanda più importante a cui rispondere è, senza dubbio, dove ci troviamo dopo il referendum. Ancora una volta, al punto di partenza: quello del 2011, quello del 2005, quello del 1997, del 1992 e del 1983. Passano i decenni, ma ogni tentativo di riforma ci riconduce inevitabilmente all’origine. Con ogni fallimento, però, perdiamo qualcosa: la bussola che ci aveva guidato in questi ultimi 5 anni è rotta e non potremo seguirla ancora, perché gli italiani hanno detto No al principio del Senato delle autonomie; hanno detto di no alla correzione dei poteri delle regioni; hanno rifiutato la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione del CNEL e delle province, e la trasformazione del bicameralismo paritario in bicameralismo asimmetrico.

E tuttavia, con buona pace di quei cittadini che hanno votato No ritenendo che le riforme istituzionali siano secondarie o inutili, e che i problemi veri sono altri, di istituzioni parleremo ancora per molti mesi, e quasi sicuramente per anni, proprio perché questo tentativo (come quelli precedenti) non ha avuto successo. A cominciare dalla legge elettorale, dato che l’Italicum regola soltanto la Camera dei Deputati, e per il Senato rimane in vigore una legge del tutto diversa: è necessario cambiare, quindi, ma non disponiamo che di strumenti incerti e inadeguati per farlo.

Infatti il risultato del referendum non ci dà alcun indizio relativamente alla direzione in cui dovremmo modificare la legge elettorale. Ci suggerisce, invece, che questa legislatura già delegittimata sul piano della credibilità della propria elezione in seguito alla sentenza Porcellum, oggi è delegittimata anche politicamente, visto come è stata ricevuta dai cittadini la riforma costituzionale, che era il suo più importante conseguimento.

Come potrà allora il nostro Parlamento produrre una nuova legge elettorale, se mancano sia un’idea condivisa degli obiettivi che una tale legge dovrebbe porsi, sia l’investitura necessaria a condurre in porto la riforma? Chiunque riceva l’incarico di guidare il prosieguo della legislatura, non potrà certo intestarsi il consenso di una parte cospicua degli italiani, che del resto sono stati chiarissimi nel dire cosa non vogliono, ma oscuri nello spiegare cosa vogliono.

Forse una pezza ce la metterà la Corte Costituzionale, che potrebbe abolire il premio di maggioranza dell’Italicum con una motivazione cerchiobottista: il premio di maggioranza è ragionevole in un sistema monocamerale o bicamerale asimmetrico, ma in presenza di un Senato paritario c’è il rischio che renda il paese meno governabile, e quindi non può essere accettato.

Il problema di questa "soluzione" è che non solo sarebbe la seconda sentenza di incostituzionalità su una legge elettorale in questa legislatura, ma stavolta non ci sarebbero né il tempo né le condizioni per addomesticarla: dovremmo per forza tornare a votare con un sistema che non è mai stato approvato da un organo provvisto della minima legittimità politica. Il principio maggioritario sancito dagli elettori con il referendum del 1993 verrebbe così divelto da un mix di accidenti storici (primo fra tutti la sostituzione del Mattarellum con un Porcellum sì incostituzionale, ma che comunque preservava il principio maggioritario) e di sentenze basate su ragioni formalmente tecnico-giuridiche, ma in pratica politicissime. A questo si aggiunga il fatto che oggi ben 9 giudici costituzionali in carica su 14 derivano, in qualche maniera, la propria carica proprio dalla legge elettorale Porcellum già giudicata incostituzionale.

Parafrasando con triste ironia il titolo del libro del prof. Stefano Ceccanti, la transizione continua e ci siamo dentro fino al collo. Fino a quando non finirà, continueremo a dire SìRiforma!